Riforma della pubblica amministrazione.

È sempre meno accessibile e «trasparente» la possibilità di conoscere atti e documenti delle amministrazioni del lavoro. Dopo un periodo in apparente «controtendenza», attualmente si registrano con sorpresa i rari casi in cui Ministero del lavoro e Istituti previdenziali esibiscono spontaneamente – su istanza degli interessati – le «carte» grazie a cui funzionari e ispettori hanno assunto i loro provvedimenti. Soprattutto presso le sedi periferiche, Inps e Direzioni del lavoro sembrano avere ingaggiato una singolar tenzone a chi nega maggiormente l’accesso a evidenze documentali necessarie per tutelare i diritti dei cittadini richiedenti. Nessuno viene risparmiato, neppure i pensionati solo in cerca del loro «passato» previdenziale (cfr. Tar Puglia, Lecce, sent. 91/2014). In un tale clima, senza la garanzia di una discovery completa dei documenti in possesso della p.a., come si possano valutare eventuali strategie di difesa verso l’incontenibile pubblico, resta un mistero. Di fatto, oggi risulta molto più facile conoscere i contenuti di un fascicolo penale che quello di una Direzione del lavoro.

Malgrado nuovi regolamenti e codici di comportamento, a parole sempre più vicini ad aziende e professionisti, sono ancora troppi coloro che vedo respinte le proprie istanze nelle forme striscianti del silenzio-rigetto. Ossia, il «muro di gomma» legalizzato che rende ancora oggi ammessa l’inerzia assoluta della p.a. Per l’ordinamento, infatti, trascorsi di solito trenta giorni dalla richiesta, le domande devono considerarsi respinte a tutti gli effetti. Non tutto è perduto, certo. Ma la strada per fare valere i propri diritti parte in salita.

Anche quando gli enti decidono di rispondere, l’impressione diffusa è che, per negare l’accesso richiesto, qualunque scusa, giuridica e meta-giuridica, pare comunque buona. Per esempio, tra le più frequenti giustificazioni opposte alle aziende che sono state colpite da contestazioni di illeciti, nonché recuperi di contributi e sanzioni, quella per cui deve sempre prevalere l’esigenza (sacrosanta in linea di principio) di tutelare i lavoratori. Inutile eccepire che, magari, si trattava di uno stabilimento balneare, che costoro si sono dimessi da molto tempo e neppure si sa più dove vivano e risiedano. Figurarsi poterli ancora angariare. Altre volte ci si sente contrapporre che i motivi dell’accesso sarebbero stati espressi troppo genericamente. Se si è stati «specifici», del resto, può capitare che gli enti ritengano le ragioni dell’ostensione non apprezzabili e prevalenti nel bilanciamento degli interessi in gioco (quali, non sempre è chiaro). Il tutto suffragato e condito quasi sempre da sentenze di Tar e Consiglio di stato – richiamate a proposito e a sproposito da uffici ed enti – che, negli anni, hanno invero garantito una giurisprudenza bifronte e adattabile a ogni occasione.

Il risultato finale, in ogni caso, è quasi sempre uno solo: delle tanto «sospirate» – e necessarie – «carte» per difendersi non se ne riesce a scorgere neppure l’ombra. Fare valere i propri diritti e, molto banalmente, decidere se valga o meno la pena di ricorrere, diventa proibitivo. Senza una vera discovery, aziende e professionisti sono così costretti a decisioni «al buio». Con quale economicità anche per la nostra appesantita giustizia, basta solo immaginarselo. Eppure la famosa legge 241 del 1990, evolutasi nel tempo in senso sempre più garantistico, sembrerebbe assicurare ai cittadini esattamente il contrario.

Senza sentire il retaggio delle leggi Bassanini, facendo pesare il proprio persistete dominio di quota, le amministrazioni giungono a confezionare motivi di diniego sovente paradossali e piuttosto umoristici. Come nei casi in cui gli uffici del lavoro giungono a negare ai legali che assistono aziende che hanno subito controlli e contestazioni (con effetti economici, oramai, sempre a 4 o 5 zeri) anche l’esibizione dei verbali delle dichiarazioni rilasciate agli ispettori da soci e amministratori. Talvolta il diniego viene giustificato sulla base di fantomatiche esigenze di tutela dei dichiaranti (nel caso, si suppone da se stessi).

Ai rigetti, è consigliabile non arrendersi facilmente, come qualcuno ormai sempre più tentato di fare. Esiste la possibilità di presentare ricorsi e impugnazioni per fare valere i propri diritti. In sede giudiziale, per esempio, è possibile ricorrere ai Tar. L’interessato – detto per inciso – può fare le sue ragioni anche personalmente, cioè senza avvocato (art. 25, legge 241/1990). Sovente, tuttavia, si è tentati di esperire l’opzione che pare più alla portata, tecnicamente (ed economicamente). Quella del ricorso in via amministrativa alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi. Istituita presso la Presidenza del consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 27, legge 241/1990, la Commissione si occupa del riesame di provvedimenti e silenzi delle pubbliche amministrazioni. Un’opportunità di riesame senz’altro diretta e praticabile, se non fosse per un eccesso di «empatia» che talvolta parrebbe avvertirsi correre tra la Commissione stessa e le amministrazioni sotto esame.

Insomma, nelle vertenze con organismi, come il Ministero del lavoro, ancora legati, nei loro frequenti dinieghi e sottrazioni di atti, a decreti di venti anni fa (cfr. dm 757/1994), la speranza di «vedere le carte» e fare valere le proprie ragioni, oggi più che mai, passa da una profonda rivoluzione del modo di gestire l’amministrazione.

di Mauro Parisi

[ItaliaOggi n. 142 del 17.06.2014]