Sentenza della Cassazione sui rapporti tra committente e dipendenti dell’appaltatore
Sì a direttive se riguardano il risultato delle prestazioni

Perché si configuri un appalto illecito, non è sufficiente avere offerto la prova che il committente abbia dato ordini ai dipendenti dell’appaltatore. Occorre indagare il contenuto di tali ordini e provare che essi riguardano la prestazione di lavoro di fatto svolta. Così afferma oggi la Cassazione, con la sentenza del 6 maggio 2015, n. 18667. Una precisazione di principio destinata non soltanto a «rivoluzionare» le dinamiche delle indagini penali sugli appalti di servizi da parte di ispettori del lavoro e delle Procure, finora solitamente «superficiali», fissandosi l’attribuzione del reato sul mero riscontro di stereotipi indici presuntivi (es. proprietà dei beni utilizzati; promiscuità con i dipendenti dell’appaltante; e, tra l’altro, provenienza degli ordini ai lavoratori). Ma anche a favorire l’organizzazione degli appalti labour intensive praticati comunemente. In sostanza, un deciso monito ai giudici di merito a non aderire a tesi accusatorie preconcette, specie se vi è in campo, come nel caso, una cooperativa.

Nella vicenda, gli ispettori inerivano l’esistenza del reato in forza di una (solo) asserita commistione tra le due società, desunta dal fatto che i locali, in cui operavano i lavoratori della cooperativa, e le attrezzature impiegate fossero di proprietà della committente, e dalla circostanza che quest’ultima esercitasse potere organizzativo e direttivo sui lavoratori.

Per la Suprema corte, tuttavia, perché si configuri un appalto in frode alla legge, non basta che ricorra la circostanza (nel caso provata) che il personale del committente sia venuto a impartire ordini agli ausiliari dell’appaltatore. Occorre piuttosto la prova che le direttive impartite siano inerenti a concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Diversamente, come afferma ora la Cassazione, se le disposizioni ai lavoratori «appaltati» si riferissero solamente al risultato di tali prestazioni (che in sé possono formare l’oggetto genuino dell’appalto), non potrebbero sorgere motivi di censura e punizione da parte dell’ordinamento. I giudici di merito avrebbero omesso di compiere tale genere di sottile, ma determinante, valutazione dei rapporti tra i soggetti coinvolti.

Sempre stigmatizzando il consueto modo di procedere per equazioni (indimostrate), la Corte di cassazione ha considerato non accettabile la valutazione in malam partem, operata dagli ispettori prima, e nel merito giudiziale, poi, di altri elementi di per loro neutri. Come con riferimento all’uso dei locali e di attrezzature del committente da parte dell’appaltatore, legittimamente concessigli in comodato gratuito. Illogico, a parere della Cassazione, inerire solo da ciò l’inesistenza di una reale organizzazione dei mezzi e dell’assunzione effettiva del rischio d’impresa.

In definitiva, a parere della Suprema Corte, perché possa dirsi ricorrere il reato di appalto illecito deve contemporaneamente essere fornita la prova dell’effettiva inesistenza di un rischio di impresa; del difetto di organizzazione, comunque sia, dei mezzi necessari all’esecuzione dell’appalto; dell’assenza di un potere organizzativo e diretto sui lavoratori, non escluso, di per sé, da eventuali ordini impartiti dal committente.

di Mauro Parisi

[ItaliaOggi n.123 del 26.05.2015]