Un indirizzo della Corte d’Appello di Milano “allarga” l’obbligo del committente. Non è l’unica novità “in aumento” di questi mesi….

Per chi opera negli appalti non pare essere un momento di grandi sollievi. Specie per i committenti e per quanti sono obbligati in solido a tenere indenni, non solo i lavoratori, ma soprattutto gli Istituti previdenziali e le Agenzie fiscali, da eventuali mancati versamenti.
La posizione di garanzia degli obbligati in solido per trattamenti retributivi, contributi e premi è stata resa meno confortevole da parte di recenti interventi della Corte di Cassazione (cfr. sentenza n. 22110/2019; sentenza n. 18004/2019), fatti propri dalla prassi amministrativa (cfr. Nota INL, n. 9943 del 19.11.2019).
Per committenti, cessionari in trasferimenti d’azienda e in situazioni di c.d. cambio appalto, la responsabilità solidale per debiti contributivi viene, infatti, oggi ritenuta reclamabile nel più lungo termine prescrizionale previsto dall’art. 3, co. 9, L. n. 335/1995. Cinque anni, quindi (ma, perché no?, anche dieci, in caso di denunce di lavoratori e sindacati), anziché i due stabiliti a pena di decadenza dall’art. 29, D.lgs. n. 276/2003. Una gran bella differenza.

Così l’Ispettorato Nazionale sulla solidarietà contributiva

La Corte ha affermato il principio in virtù del quale il termine decadenziale di due anni previsto dall’art. 29, comma 2, riguarda esclusivamente l’esercizio dell’azione nei confronti del responsabile solidale da parte del lavoratore, per il soddisfacimento dei crediti retributivi e non è applicabile, invece, all’azione promossa dagli Enti previdenziali per il soddisfacimento della pretesa contributiva. Quest’ultima risulta soggetta, dunque, alla sola prescrizione prevista dall’art. 3, comma 9, L. n. 335/1995.

Una lettura della norma all’apparenza non aderente alla sua lettera: il “nonché” di cui all’art. 29, comma 2, significa, da dizionario, “non solo”, “ inoltre”, “per lo più”. Per cui, il riferimento “decadenziale” ai due anni, parrebbe complessivo, per trattamenti retributivi più contributi e premi.
Fatto sta che gli organi ispettivi sono stati allertati a trasmettere senza ritardo agli Istituti i propri verbali di accertamento perché gli Istituti possano operare nei termini più lunghi.
I motivi di ambasce, però, non si fermano qua. Pare si stia facendo strada l’idea di una responsabilità omnibus del committente per tutti i debiti relativi al lavoratore “in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto”.
Facciamo l’esempio che una società committente X abbia appaltato a una società appaltatrice Y un servizio aziendale. E mettiamo che per questo servizio la società Y impieghi lavoratori in modo variabile, a seconda delle esigenze. Per esempio, un mese ne occupa venti, mentre in altri ne bastano alcune unità. È chiaro che i lavoratori già impiegati nel mese precedente a favore di X, verrebbero impiegati dall’appaltatore altrove, nell’esecuzione di altri contratti di appalto.
L’assunto che, qui e là, sembra stia facendosi strada, è che il committente X sarebbe chiamato a rispondere in solido per un lavoratore dell’appaltatore Y, già impiegato nell’appalto in discorso anche per soli pochi giorni, in relazione a tutto il periodo di esecuzione dell’appalto, a prescindere dal suo impiego.
In tale senso risulta esprimersi, per esempio, la Corte d’Appello di Milano, per cui, comunque siano stati “addetti” all’appalto i lavoratori (poco o tanto, presenti o assenti), per essi dovrà sempre garantire il committente.

Così la Corte d’Appello Milano, sentenza n. 773/2019

È poi pacifico che le differenze contributive stimate nel verbale concernano proprio i dipendenti dell’Appaltatore inseriti nell’elenco degli addetti all’appalto della Committente, a nulla rilevando, al fine che qui interessa, che il debito contributivo concerna giornate effettivamente lavorate nell’appalto, piuttosto che giornate di assenza retribuita, piuttosto che giornate di assenza non retribuita e illecitamente autorizzata dal datore di lavoro in contrasto con il Ccnl. In ognuna di tali diverse ipotesi, infatti, si tratta comunque di contributi previdenziali relativi a personale addetto all’appalto e “dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto”.

Si tratta di una posizione che estende in modo, non solo più gravoso, ma addirittura insondabile il potenziale obbligo contributivo del committente. Non solo l’estensione di responsabilità appare eccessiva; ma addirittura la difendibilità stessa della propria responsabilità accessoria pare a rischio (si pensi al caso di chiamata allorquando l’appaltatore è già cessato), atteso che il trascorrere del tempo complica la possibilità di conoscere quale sia stato l’impiego effettivo e la vicenda del lavoratore dell’ex appaltatore. Il preoccupante indirizzo milanese, che si assomma alle novità “temporali” prima descritte, pare porsi però in controtendenza rispetto a una giurisprudenza più rincuorante, che limita l’obbligo solidaristico.

Per esempio, il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 938/2016, aveva in precedenza lanciato rassicurazioni in ordine al fatto che l’art. 29, D.lgs. n. 276/03 dovesse essere interpretato nel senso che l’obbligazione solidale non va solo riferita ai crediti maturati durante il periodo di gestione del contratto d’appalto, ma pure che “a ciascuno dei committenti può essere imputata solo la quota contributiva corrispondente all’attività lavorativa espletata nell’ambito del rispettivo appalto”. Molto chiaro e condivisibile.
Del resto dello stesso segno era pure la Suprema Corte allorquando ribadiva univocamente che “la solidarietà sussiste solo per i crediti maturati con riguardo al periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto stesso” (cfr. Cass. civ., sez. Lavoro, Ordinanza n. 27678/2018). Concetto ribadito anche nei più univoci termini per cui la responsabilità solidale deve riguardare solo i crediti maturati nel periodo di durata del contratto di appalto e in ragione della prestazione resa per la realizzazione del servizio commissionato: ossia che “la responsabilità solidale deve ritenersi limitata solo ai crediti retributivi maturati nel corso dell’esecuzione dell’appalto” (Cass. Civ., sez. Lavoro, Ordinanza n. 2297/2019).

Secondo queste ultime decisioni, onde operare eventuali richieste solidali ex art. 29, D.lgs. n. 276/2003, parrebbe necessario, quindi, che l’Inps fosse in grado di offrire la dimostrazione esatta e certa della misura delle presenze e dell’impegno dei lavoratori in ragione dell’appalto considerato.
Diversamente, a tenore della pronuncia della Corte d’Appello di Milano n. 773/2019, all’Inps basterebbe dimostrare solo la presenza, anche una tantum, del lavoratore quale addetto all’appalto.
Una tesi apparentemente eccessiva e senz’altro di minore garanzia per i responsabili in solido.

di Mauro Parisi

 

[Sintesi n. 2/2020]