Quando un (improprio) segreto d’ufficio non permette di difendersi

A molti professionisti è certamente capitato di dovere assistere un’azienda –ma lo stesso vale se l’assistito è un qualunque cittadino– che ha subito un atto di diniego, o un qualsiasi rigetto da parte dell’amministrazione.

Come si procede in questi casi, si sa. Ci si informa dall’assistito su come sono andate le cose e sui particolari del caso (lo si interroga spesso molto a fondo, per “spremere” ogni dettaglio significativo che è “restio” a fornirci); si richiedono tutte le “carte” in suo possesso; infine, si provano a ottenere dall’amministrazione stessa i documenti utili per fare valere i suoi diritti.

E qui, come si dice, “casca il palco”. Le pubbliche amministrazioni hanno parecchi pensieri tranne quello di concedere collaborativamente la visione delle evidenze in loro possesso.

Talvolta, in effetti, alcuni dei documenti richiesti sono tra quelli per cui è proibita l’ostensione (come dicono i tecnici). Vale a dire la loro esibizione. Dunque, diniego corretto.

In genere, tuttavia, si tratta degli stessi atti e documenti (verifiche, rilievi tecnici, testimonianze), sulla cui base sono stati assunti i provvedimenti da cui ci si intende tutelare. Sono tutte quelle “carte” (in realtà il loro formato può pure essere ottico, digitale, ecc. insomma, anche non tradizionalmente cartaceo) che entrano nel fascicolo relativo al nostro assistito.

Insomma, se riteniamo che quest’ultimo abbia subito la lesione di un proprio diritto o interesse legittimo, sono proprio quelle carte che vanno visionate (esibizione), fotocopiate (estrazione di copia) e…combattute.

Per fare valere le ragioni di aziende e cittadini.

A fronte di leggi e regolamenti piuttosto –almeno all’apparenza– aperti (a cominciare dalla famosa legge 241 del 1990, negli anni modificata e fatta evolvere in senso sempre più garantistico per il cittadino), ci si vede opporre dagli amministratori atteggiamenti tutt’altro che “accoglienti”.

Insomma, c’è sempre un segreto d’ufficio da difendere.

Sovente le amministrazioni neppure si sforzano di rispondere alle istanze presentate da professionisti e interessati (e ciò, malgrado l’incombente rischio di segnalazioni e condanne per omissione di atti del proprio ufficio).

Altre volte –la maggior parte– le richieste vengono respinte sulla base di pseudo-motivazioni, accompagnate dalla citazione e trasposizione di massime e pronunce di TAR. Se non che, si tratta di motivazioni del tutto generiche e, quindi, ben lontane dal valutare gli effettivi termini della stessa istanza. Quindi, illegittime.

Per chi bazzica un po’ la pubblica amministrazione, è del tutto noto che molti degli atti di negazione rappresentano, in realtà, formule di mero stile (e predisposte a “ciclostile”), delle quali gli Uffici vengono a modificare, di volta in volta, solo gli indirizzi dei destinatari. Un fatto grave e non insolito.

Resta che di atti e documenti della PA di cui si chiede l’accesso, non viene offerta neppure l’ombra.

Difendersi diventa quasi impossibile.

O un gioco d’azzardo, poiché a carte “coperte”.

In realtà, questo “arroccamento” dell’amministrazione non sembra oggi più accettabile.

Basti pensare come possa essere migliore la sorte che tocca (almeno con riguardo alla visione degli atti che lo accusano) a colui che viene imputato di avere commesso un reato.

Se durante le indagini gli atti sono “coperti” da un giusto segreto istruttorio, in seguito i legali potranno senza difficoltà vedere come è composto il fascicolo del P.M..

Se invece che di un reato, si tratta di un illecito amministrativo o del recupero di sanzioni amministrative, la medesima facoltà raramente viene concessa.

C’è sempre qualche altro controinteresse da bilanciare.

Un fatto piuttosto curioso, a ben pensarci. Fatti più gravi (i reati) per cui è possibile –almeno da un certo momento- accedere ed estrarre copia di atti e documenti; fatti meno gravi (es. illeciti amministrativi: si pensi al lavoro irregolare; all’evasione contributiva; ecc) per cui ciò non viene ammesso.

Spesso la prima volta in cui gli interessati riescono a vedere le carte e i documenti che –per l’amministrazione- li “inchiodano”, è di fronte al giudice. A cui, magari, loro stessi sono dovuti ricorrere, preferendo il rischio della causa incerta che l’acquiescenza al muro di gomma.

E se pure è vero che è astrattamente possibile adire Tar e Commissioni per provare a ottenere gli atti, l’incertezza anche di quelle vie, come l’eccessiva difficoltà di “rincorrere” sempre un’amministrazione sfuggente, richiede oramai ben altre soluzioni per permettere al cittadino di difendersi davvero.

Come quelle previste dal codice di procedura penale.

Insomma, anche per l’accesso ai documenti dell’amministrazione, oggi serve una riforma di trasparenza. Ma che sia vera, stavolta.

di Mauro Parisi

[The World of Il Consulente n. 61 del 20.11.2014]

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