Penalizzanti le sanzioni sul sommerso

Sul lavoro irregolare le aziende stagionali risultano discriminate da legge e ministero del lavoro. Infatti, la normativa entrata in vigore con le deleghe del Jobs Act sta mostrando proprio al termine di questa prima estate della sua vigenza i suoi riflessi meno favorevoli per le attività, in primo luogo quelle turistiche, ma non solo, legate al breve periodo delle vacanze. In sostanza per i datori di lavoro che «sbagliano» durante la loro breve stagione, ricorrendo al lavoro sommerso, le sanzioni possono costare di più. Almeno il doppio. Vediamo perché.

Il decreto legislativo n. 151/2015, attuativo dell’ultima Riforma del lavoro, nel ridefinire le (maxi) sanzioni amministrative per lavoro in nero negli scaglioni ora previsti (da 1.500 a 9.000, nel minimo, a 6.000 a 36.000, nel massimo), prevede la possibilità di regolarizzazione degli illeciti relativi a lavoratori irregolari trovati dagli ispettori ancora in forza presso il datore di lavoro. Le regole della sanatoria per versare i minimi edittali, anziché le maggiori somme, sono piuttosto chiari. Occorre, infatti, assumere i lavoratori sommersi con contratto a tempo pieno o part-time (ma non inferiore al 50% del full time). La soluzione preferita dal legislatore è l’assunzione a tempo indeterminato, ma l’ordinamento stesso si «accontenta» anche di un «contratto a tempo pieno e determinato di durata non inferiore a tre mesi». A ciò va aggiunto che non basta formalizzare il contratto, per poi, magari, farlo «sparire» nel nulla, ma occorre l’effettivo «mantenimento in servizio degli stessi [lavoratori] per almeno tre mesi».

Detto ciò, appare abbastanza evidente come la nuova sanatoria prevista dal Jobs Act risulti iniqua, e di fatto proibente, per quei datori di lavoro che, talvolta a stento, raggiungono i tre mesi complessivi di attività. Si pensi a un esercizio presso uno stabilimento balneare o in una località montana.

Del resto, anche ammesso che il datore di lavoro stagionale abbia avuto il tempo per regolarizzare le posizioni contestate, assumendo il lavoratore impiegato di fatto (per esempio, perché la contestazione ispettiva è sopraggiunta all’inizio dell’estate e con tutta l’incerta stagione davanti ancora da compiersi), la sua condizione risulterà comunque deteriore rispetto a quella di un datore di lavoro «normale», ossia stabile.

Infatti egli, dato il suo orizzonte temporale a tempo, risulta costretto a «caricarsi» full time il lavoratore che un omologo non stagionale potrebbe assumere tranquillamente come part-time. Cioè, per la metà del costo.

Alla situazione di chiara disparità di trattamento concorre in modo determinante anche l’interpretazione che dell’art. 22, dlgs 151/2015 ha offerto il ministero del lavoro, con la Circolare n. 26/2015. In particolare, al Welfare poco importa quale sia la ragione per cui il rapporto di lavoro sanato non raggiungerebbe la soglia temporale prevista dalla legge. In tale senso viene chiaramente enunciato che «in assenza di un effettivo mantenimento del rapporto di lavoro per almeno tre mesi entro il centoventesimo giorno dalla notifica del verbale, qualunque ne sia la ragione, non potrà ritenersi adempiuta la diffida». Ma se osta «qualunque ragione», è chiaro che, anche assunto il lavoratore, una volta che sia venuta meno l’occasione dell’impiego (cosa che accade naturalmente per la stagionalità), verrà meno qualunque potenziale beneficio. Poco importa se non colpevolmente. Il venire meno della condizione obiettiva («elemento oggettivo di applicabilità della sanzione in misura minima»), preclude l’accesso alle sanzioni minime.

E alle imprese stagionali non resta che mettere in conto somme almeno doppie per i loro errori.

di Mauro Parisi

[ItaliaOggi n. 235 del 04.10.2016]