Un nuovo e rivoluzionario filone di pretese contributive Inps si è aperto nei confronti delle Pubbliche amministrazioni. L’Istituto ha tra l’altro iniziato a richiedere a Enti pubblici i contributi previsti dal Decreto legislativo n. 148/2015, per gli ammortizzatori sociali nei casi di crisi transitoria o straordinaria delle loro attività. Richieste che pongono diversi dubbi concettuali e operativi sul loro corretto fondamento e giustificazione.

di Mauro Parisi

Anche la Pubblica amministrazione, quale datore di lavoro, è entrata nel mirino dell’Inps, potendo divenire destinataria di sue verifiche e richieste di versamenti contributivi.

Una circostanza ancora inconsueta, ma che non dovrebbe stupire oltre misura, visto che la prospettiva di specifiche azioni di vigilanza nell’ambito del lavoro nel settore pubblico era stata preannunciata espressamente e in via ufficiale anche dal “Documento di programmazione della vigilanza per il 2023” dell’Inl.

In materia previdenziale, infatti, quello delle “Pubbliche amministrazioni” viene indicato dal “Documento di programmazione” tra i settori (quanto agli ulteriori considerati, si notano la logistica, il trasporto aereo, la GIG economy, le cooperative di produzione, l’agricoltura, i servizi alle imprese, lo spettacolo, l’editoria e il giornalismo) verso i quali viene ora rivolta l’attività di controllo ai fini della “garanzia di effettiva tutela dei diritti sostanziali dei lavoratori e delle condizioni di lavoro”. S’intende che l’effettuazione di azioni “mirate” di vigilanza concorra, tra l’altro, a “evitare distorsioni del sistema con riguardo alle misure di integrazione salariale e di sostegno al reddito”.

Entrati nell’orbita della vigilanza Inps, ed evidentemente non più tutelati dal proverbiale rapporto del cane che non mangia cane, Enti pubblici si sono già visti richiedere dall’Istituto, con inopinate messe in mora, di adeguare il versamento dei propri contributi a quanto previsto dal Decreto legislativo n. 148 del 2015 in materia di ammortizzatori sociali.

In definitiva, nel corso del 2023, è capitato che pubbliche amministrazioni abbiano ricevuto la richiesta di versare la contribuzione prevista dal predetto Decreto attuativo, a titolo di fondi di integrazione salariale (Fis) e di cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs).

Nel caso del Fis (non potendosi ritenere le amministrazioni rientrare nel puntuale campo di applicazione della Cassa integrazione ordinaria, Cigo, di cui all’art. 10, D.lgs. n. 148/2015), le forme del potenziale intervento di integrazione salariale (poco pronosticabile nel pubblico, è il caso di rimarcarlo da subito) sono quelle previste dagli articoli 26 e seguenti del D.lgs. n. 148/2015, per le evenienze di sospensione dal lavoro dei dipendenti di datori di lavoro non rientranti nell’ambito di applicazione della Cigo, per situazioni di crisi dovute a eventi transitori e non imputabili all’azienda o ai dipendenti, incluse le intemperie stagionali, nonché situazioni temporanee di mercato.

Per quanto concerne la Cigs, l’Inps pare ipotizzare oggi che anche le Pubbliche amministrazioni e gli Enti pubblici, quali datori di lavoro, possano essere destinatari dell’intervento straordinario previsto dall’art. 21, D.lgs. n. 148/2015, nell’ipotesi di riorganizzazione aziendale, nel caso si realizzino processi di transizione, oppure di crisi aziendale -purché non interessanti la cessazione dell’“attività produttiva dell’azienda” o di un suo ramo- o, infine, in situazioni considerate da contratti di solidarietà.

Fattispecie e situazioni che apparentemente poco paiono attagliarsi alle dinamiche del pubblico servizio, ma su cui, evidentemente, l’Istituto nutre un giudizio contrario.

Non vi è dubbio che la riforma del decreto attuativo n. 148/2015, entrata in vigore nel 2022, abbia ampliato di non poco le tutele praticabili.

Come infatti espone l’Inps nella propria circolare n. 76 del 30 giugno 2022

La legge 30 dicembre 2021, n. 234 (di seguito, anche legge di Bilancio 2022), all’articolo 1, commi da 191 a 220, ha profondamente modificato la normativa in materia di ammortizzatori sociali contenuta nel decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148.

In particolare, è stata superata l’alternatività tra le tutele previste dal Titolo I e quelle del Titolo II del D.lgs n 148/2015, prevedendo un sistema di protezione sociale che si basa sulle prestazioni di integrazione salariale quali la cassa integrazione ordinaria (CIGO) e straordinaria (CIGS), il Fondo di integrazione salariale (FIS) e quelle previste dai Fondi di solidarietà bilaterali.

In un’ottica di ampliamento dei destinatari della disciplina degli ammortizzatori sociali, pertanto, l’Istituto ha ritenuto che la platea dei datori di lavoro eleggibili per l’intervento assistenziale a favore dei loro dipendenti non possa che riguardare anche le pubbliche amministrazioni.

Alcune di esse, quindi, inaspettatamente, si sono viste già recapitare note di rettifica e richieste di versamenti contributivi, anche per gli anni passati.

Non solo si tratta di vere e proprie amministrazioni pubbliche (non parliamo, quindi, di municipalizzate e società in-house) che pacificamente sono da annoverare tra gli Enti pubblici, rientrando nel cosiddetto elenco Istat delle pubbliche amministrazioni, come da ultimo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 settembre 2022, n. 229; ma, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, sono state oggetto di provvedimenti pure quelle riconosciute espressamente quali “amministrazioni centrali”.

Tanto per intendersi, anche l’Inps e l’Inail risultano ricomprese tra dette amministrazioni centrali, sebbene a oggi non vi sia notizia che gli Istituti di previdenza si siano già autoimposti alcun versamento di contribuzione Fis e Cigs, o comunque ai fini ed effetti del D.lgs. n. 148/2015.

Si è provato a giustificare la circostanza che Inps e Inail non sarebbero assoggettate al contributo -per quanto siano senz’altro pubblici datori di lavoro di molto personale- e le perplessità che suscita tale disparità di trattamento rispetto alle richieste finora pervenute, con la tesi per la quale l’obbligo contributivo riguarderebbe, per ora, gli E.P.E., enti pubblici economici (ossia quegli enti che operano con finalità economiche in senso stretto), ritenendoli di fatto imprese nell’accezione civilistica della nozione.

Il sillogismo emergente (non ancora in via ufficiale, a quanto pare) parrebbe essere quello, dunque, dell’assoggettamento alla contribuzione in discorso delle P.A. annoverabili quali “imprese”.

Tuttavia, il carattere di sostanziale imprenditorialità dell’E.P.E. non può dirsi rilevarsi in modo assiomatico in soggetto, ma necessita di un vaglio approfondito, con analisi delle singole circostanze -caso per caso e rispetto a tutti i vincoli di finanza a cui le amministrazioni sono soggette-, non sembrandosi concesso considerare gli E.P.E. in grado di autonomia finanziaria (e quindi, con una certa semplificazione, “imprenditori”), per il solo fatto che i medesimi pongano in essere, per esempio, alcuni servizi soggetti a fatturazione.

Del resto, un riferimento e una previsione che renda soggetta la Pubblica amministrazione -e gli Enti pubblici economici previsti nell’elenco Istat, in particolare- alle disposizioni del Decreto legislativo n. 148/2015, non pare discendere dal tenore e ratio di tale norma, neppure dopo la sua riforma.

Volendosi ritenere il contrario, tuttavia, per coerenza logica, se il contributo Fis fosse davvero dovuto pure dai datori di lavoro pubblici (e non solo da quelli del settore privato), esso non potrebbe che essere preteso -con effetto retroattivo, fino a prescrizione- anche da “insospettabili” Pubbliche amministrazioni, incluse chiaramente Inps e Inail.

Invece, per quanto concerne la Cigs, potrebbe forse astrattamente giustificarsi la richiesta dell’Inps ai soli Enti pubblici-imprese -e non agli altri, visto l’ambito di applicazione di legge- purché si provasse in modo puntuale che ciascuno di essi -e gli E.P.E. in particolare-, siano, appunto, tout court imprese, autonome, senza vincoli di spesa e “libere” nella gestione finanziaria.

Tuttavia, in attesa di prese di posizione ufficiali dell’Inps, già da ora può osservarsi come la pretesa dell’Istituto di ricondurre alla disciplina degli ammortizzatori sociali la Pubblica amministrazione, si scontri con la maggiore e insuperabile limitazione concettuale manifestamente ravvisabile nel caso. Vale a dire, con l’impossibilità che il servizio pubblico svolto dall’Amministrazione possa venire legittimamente interrotto (pena, anche, il possibile perpetrarsi dei reati relativi: cfr. artt. 331 e 340 c.p.), dovendo sempre essere condotto secondo la mission imposta dall’ordinamento.

Non appare facile immaginare, pertanto, che si concretizzi legittimamente la pregiudiziale condizione di sospensione dell’attività lavorativa pubblica, necessaria perché possano trovare spazio gli interventi degli ammortizzatori sociali.

Perciò, in definitiva, la richiesta della relativa contribuzione Inps, allo stato della normativa, non sembrerebbe giustificabile.

[Sintesi n. 9/2023]

[Articolo pubblicato anche su www.verifichelavoro.it]