La S.C. ha deciso che per affermare la responsabilità del datore di lavoro è sufficiente che gli ispettori riferiscano delle reazioni del lavoratore.

Basta la parola del lavoratore a determinare il destino del datore di lavoro e dell’azienda oggetto di accertamento ispettivo.

Neppure è necessario che le dichiarazioni del dipendente siano verbalizzate dai funzionari, peraltro. È sufficiente che di esse, e delle sue reazioni emotive, se ne ricordi l’ispettore una volta chiamato a testimoniare di fronte al giudice.

In tale senso, la sempre delicata posizione del datore di lavoro viene oggi resa ancora più “fragile” dalla recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 41600/2019.

Il caso che ha condotto la Suprema Corte a un tale preoccupante verdetto nasce da un accertamento ispettivo nella sede di un pubblico esercizio, il quale si scopriva impiegare un lavoratore irregolare.

Il lavoratore, una volta ascoltato dagli ispettori, affermava, tra l’altro, di non avere ricevuto alcuna informazione in materia di sicurezza del lavoro. Tanto da non avere nemmeno conoscenza sufficiente delle connotazioni del luogo di lavoro in cui operava, né di chi fossero i referenti aziendali deputati a garantire l’igiene e la sicurezza.

Gli ispettori procedevano, allora, a contestare i relativi illeciti penali in materia di

sicurezza del lavoro (per esempio per la mancanza di formazione: cfr. artt. 36 e 55, TU Sicurezza). Ad essi decideva di resistere il datore di lavoro, in più gradi di giudizio.

Tra le eccezioni mosse dall’azienda vi era quella per cui i giudici di merito non avessero neppure voluto sentire nel corso dei processi il lavoratore, come pure richiesto. Inoltre che dei fatti testimoniati dagli ispettori – di fatto unica prova a carico -, i funzionari non avessero mai avuto alcuna conoscenza diretta.

Ma per i giudici di legittimità la narrazione degli accadimenti svelati dal prestatore di lavoro ai funzionari nell’immediatezza del controllo rappresentano una dimostrazione sufficiente a incriminare l’azienda, anche a prescindere dalla testimonianza in giudizio del prestatore di lavoro.

Come noto, sussiste un divieto di legge (art. 195, c.p.p.) per gli ufficiali di polizia giudiziaria (quali sono gli ispettori del lavoro) -e gli agenti di p.g.- di testimoniare indirettamente delle affermazioni di terzi, circa eventi di cui non hanno avuto diretta conoscenza.

Ma nel caso, a parere della S.C., la testimonianza doveva ritenersi diretta.

In particolare, a parere dei giudici di legittimità, i funzionari avrebbero colto direttamente -e rimandato ai giudicanti- la percezione sensibile dell’“ignoranza” del lavoratore in ordine a presidi e misure di sicurezza, nonché i suoi stati emotivi.

Così la Cassazione, sentenza n. 41600/2019

A seguito del controllo ispettivo, deve quindi affermarsi che il giudizio di responsabilità dell’ imputato è stato fondato non sulle dichiarazioni indirette dell’ ispettore, ma solo sul racconto derivante dalla percezione diretta del funzionario, sentito come testimone. Per il condiviso orientamento di questa Corte (cfr. sentenza n. 38149/2015), il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria non riguarda i dati di fatto direttamente percepiti dall’agente, tra i quali sono stati ricompresi anche gli stati emotivi delle persone osservate, per cui l’utilizzabilità della testimonianza dell’ufficiale di polizia giudiziaria deve ritenersi a maggior ragione riferita anche alle reazioni del lavoratore rispetto alle sollecitazioni finalizzate a verificare, in assenza di riscontri documentali, la conoscenza da parte della stessa delle informazioni sulla sicurezza che avrebbe dovuto ricevere dal datore di lavoro.

Peraltro, come detto, a parere della medesima sentenza n. 41600/2019, non sussiste neanche un dovere cogente che siano verbalizzate le dichiarazioni del lavoratore ascoltato dai funzionari, quale “registrazione” delle sue parole, usualmente suscitate dai quesiti esplorativi rivolti dall’ispettore.

Appare evidente che un orientamento di tale segno -peraltro affermatosi nella più garantistica delle sedi, quella penale-, può potenzialmente comprimere la posizione e i diritti di difesa delle aziende sottoposte a controlli.

Tra le possibili soluzioni a favore delle difese aziendali, può essere senz’altro utile che già nel corso delle indagini i legali dell’azienda compiano in proprio attività di indagine (c.d. investigazioni difensive), a mente degli artt. 327bis e 391bis c.p.p. In tale senso, possono così essere sentiti per sommarie informazioni gli stessi lavoratori, anche documentandone le dichiarazioni (cfr. art. 391ter, c.p.p). Le dichiarazioni assunte in tale forma potranno, poi, essere fatte valere in giudizio.

Tutto sommato, allo stesso modo, qualunque professionista che assiste l’azienda nel corso di un controllo ispettivo, è abilitato a verificare in proprio le condizioni di lavoro oggetto di accertamento, individuando e raccogliendo ogni utile documentazione, tra cui, magari, anche le medesime spontanee dichiarazioni sottoscritte del lavoratore.

La documentazione così raccolta, oltre che utile al confronto diretto con gli ispettori, potrà essere in seguito riversata negli eventuali contenziosi giudiziali.

di Mauro Parisi

 

[Sintesi n. 1/2020]