Più trasparenza sulle pronunce per garantire i cittadini e liberare i tribunali.

Tra gli strumenti di deflazione del contenzioso in materia di lavoro che ogni tanto vengono pensati e introdotti nell’ordinamento per provare ad alleviare gli impressionanti carichi della giustizia e i suoi costi (per tutti, Stato e cittadini), qualche anno fa –nove per l’esattezza- il legislatore ne ha “escogitato” uno, in particolare, che, almeno sulla carta, pareva destinato a produrre risultati piuttosto sostanziali e innovativi. Si tratta del ricorso al Comitato Regionale per i rapporti di lavoro istituito presso la Direzione Regionale del lavoro.

Previsto dall’articolo 17 del decreto legislativo n. 124/2004, esso può essere esperito quale mezzo di impugnazione e rivalutazione in via amministrativa di quei verbali ispettivi che, a seguito di investigazione dei funzionari (di Inps, Inail, Ministero del lavoro, ecc), hanno ritenuto sussistenti –o qualificato diversamente da quanto avevano fatto le parti- rapporti di lavoro. L’ispettore ritiene che sussista un rapporto di lavoro subordinato, anziché uno di co.co.pro? E io ricorro al Comitato Regionale. Il verbale di accertamento ispettivo ha giudicato provata un’attività di lavoro sommerso quando, secondo me, non vi è prova alcuna? Posso sempre fare ricorso al Comitato Regionale per vedere accolte le mie ragioni. Il ricorso, accompagnato dal verbale di accertamento ispettivo che si oppone, può essere inviato per posta certificata o via posta ordinaria. Si deve avere cura che l’impugnazione “parta” entro trenta giorni dall’arrivo del verbale ispettivo: ma va pure detto che una fantasiosa interpretazione ritiene inammissibile il ricorso presentato nel corso del termine concesso al trasgressore per eventuali regolarizzazioni. Come dire, non prima di un certo momento, non dopo un altro momento, pena trovarsi in “fuori gioco” -e vedere precluse le proprie ragioni-, poiché fatte valere intempestivamente o, al contrario, …troppo tempestivamente. Ma cosa accade quando arriva un ricorso presso i Comitati Regionali per i rapporti di lavoro? Come sono soliti decidere tali Comitati? Quali sono gli orientamenti dei Comitati sulle grandi tematiche ispettive? Poco se ne sa, in realtà. Come agiscano i Comitati Regionali e cosa un ricorrente abbia plausibilmente da aspettarsi all’esito del procedimento che lo riguarda, è uno dei segreti tra i meglio custoditi dall’amministrazione. In talune situazioni, per esempio, si ha come l’impressione che maggiori sono le ragioni di chi presenta impugnazione, più appare facile che neppure si ottenga una risposta. La qual cosa, come è noto, costituisce una circostanza non indifferente, bensì destinata a produrre un effetto di sfavore nei riguardi di chi attende risposte: si tratta del cosiddetto silenzio-rigetto. Un rigetto che, però, impegna poco l’amministrazione, la quale neppure deve fare lo sforzo di ostentare qualche scusa verosimile. Altre volte, invece, i Comitati Regionali rispondono in modi che, dire sintetici, appare davvero limitante. In quelle ipotesi le pronunce suonano spesso, più o meno, così: “visti gli atti ispettivi e la documentazione trasmessa, il Comitato ritiene fondati gli addebiti”. Insomma, qualcosa di non troppo distante dal dantesco “vuolsi così colà”. Specie in questi ultimi casi (o in quelli non rari in cui le pronunce paiono stilate con nessun apparente aggancio con i rilievi, i motivi e le ragioni presentate nel ricorso), siamo senza dubbio al cospetto di veri e propri dinieghi di giustizia. L’impressione che si ha leggendo talune pronunce di Comitati Regionali, non di rado, è quella per cui taluni organismi non riescano davvero a essere soggetti terzi, cioè capaci di giudicare spassionatamente, con equità e vero approfondimento quanto loro sottoposto. Piuttosto essi paiono ergersi -fuori parte nel copione!-, quali difensori d’ufficio degli stessi funzionari estensori dei verbali ispettivi di accertamento. Le conseguenze ingenerate da quei Comitati Regionali che perseverano a gestire in forme “singolari” le competenze attribuite, appaiono facilmente prevedibili. Innanzitutto, motivatamente, il cittadino può provare sfiducia e rinunciare a fare valere le proprie ragioni: anche quando ne ha da vendere. In tali casi si preferisce corrispondere quanto (ingiustamente) richiesto dall’amministrazione piuttosto che affrontare il rischio ulteriore di un giudizio
che si teme perso in partenza (ma va detto che, sovente, tale previsione non è per nulla fondata). Quale ulteriore conseguenza generale del fatto che non si offre una vera giustizia nel caso singolo, vi è quella per cui si radica nell’amministrazione e nei suoi funzionari, la sensazione di essere “superman”, ossia di avere poteri e intangibilità che in realtà non esistono, né hanno motivo. Ancora. Il cittadino, anche nelle ipotesi in cui ha mostrato di avere pienamente ragione, è costretto spesso e comunque ad affrontare i costi di difese tecniche presso le sedi giudiziali. In tali situazioni, non solo si deve mettere mano al portafoglio, ma la non corretta azione dei Comitati Regionali potrà contribuire a riempire i ruoli già gravati di molti giudici. Per evitare le disfunzioni cennate e dare nuova efficacia a un istituto in realtà di grandi potenzialità deflattive, oggi più che mai, occorre che l’amministrazione sappia garantire trasparenza al proprio operato. Per esempio, sarebbe molto opportuno che i Comitati pubblicassero le loro pronunce (magari pure in forma anonima e massimata): metterle a disposizione degli operatori su i propri siti istituzionali sarebbe un gesto prezioso. Ciò permetterebbe agli operatori di orientare e adeguare preventivamente la propria azione e le proprie scelte anche sulla base di trend ufficiali. Favorirebbe, poi, l’uniformità dell’azione dei Comitati, evitando il rischio di pronunce ad personam, magari differenti, seppure sulle medesime materie e argomenti. Innalzerebbe, quindi, la qualità e l’attenzione degli uffici pubblici sulla redazione delle pronunce, essendo certa la loro pubblicazione: ciò eviterebbe sciatterie e motivazioni date in forma di mere petizioni di principio. L’augurio, quindi, è che, nel 2013, un’amministrazione che non teme alcun confronto sappia davvero aprire le proprie “porte” ai cittadini. Ai professionisti, invece, il compito di…bussare. Il Ministero chiarisce come la disposizione abbia ad oggetto le modalità di svolgimento della prestazione, potendo il lavoratore svolgere legittimamente le stesse attività dei lavoratori subordinati, purché con modalità differenti, cioè in autonomia. La circolare ricorda anche che la ricordata presunzione relativa non troverà applicazione per le prestazioni di elevata professionalità. Dette prestazioni potranno ben essere individuate dalla specifica contrattazione collettiva alla stregua e specularmente rispetto a quanto prima analizzato in caso di attività ripetitive ed esecutive.

di Mauro Parisi

[The World of Il Consulente n. 38/2013]