Si può essere condannati a versare contributi per lesioni del cd. “minimale”, quando neppure è noto a quanto ammonti? Questo e altri “paradossi” giudiziari terrorizzano le imprese in causa.

 

Sia chiaro: pagare i contributi ai lavoratori è un dovere che non ammette eccezioni.
Ma altrettanto doveroso è che i contributi pretesi e versati siano esattamente quelli previsti dalla legge, e non un euro di più.
Non sempre è così, però, purtroppo.
Soprattutto una volta che approdano presso i tribunali, le posizioni dei datori di lavoro segnati da richieste degli Istituti si fanno difficili. La sensazione di molti è che le posizioni
di Inps ed enti omologhi siano sempre più munite e agevoli di quelle delle aziende che resistono. Sensazioni, probabilmente, dettate dall’ansia delle difese.
Addirittura, quanto alle spese legali, qualcuno ha la percezione che siano concesse con minore generosità allorquando a soccombere siano gli Istituti.
Forse solo sensazioni preconcette, magari da verificare su ampia scala.
Sono comprensibili le preoccupazioni di chi teme che il sistema previdenziale non sia alimentato costantemente, date le note e cospicue esigenze pubbliche. Manco da dire, però, che tale obiettivo solidaristico non può reggersi su decisioni discutibili, quantunque magari molto rapide, che vengono a gravare tout court sulle imprese.
Prendiamo un caso molto frequente. Per esempio, ammettiamo che un Istituto previdenziale contesti il mancato rispetto dei “minimali” di contribuzione da parte del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 1, D.L. n. 388/1989.
In effetti, per legge, ai datori di lavoro non è concesso andare “sotto” gli stringenti parametri di legge e Ccnl nell’erogare la retribuzione e nel versare la relativa contribuzione, dato che la “retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’ importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi”.
Tutto chiaro? Vediamo.
Se un creditore privato cittadino dicesse che un debitore gli ha versato meno del dovuto, ci si aspetterebbe che, quantomeno di fronte al giudice, quel creditore fosse in grado di dimostrare quanto sarebbe quel “dovuto” da versare. La cosa pare di logica stringente e di comune buon senso.
Se invece quel debitore dicesse solamente, “tu mi hai pagato “X” e quindi mi devi ancora “Y””, senza dubbio la prima osservazione del giudice adito sarebbe quella di chiede al creditore lumi sulla determinazione di “Y”, credito ancora preteso, alla luce di un valore incognito di partenza.
Eppure, in campo previdenziale, la questione del rispetto del “minimale” di retribuzione e contribuzione viene gestita sempre più spesso presso i tribunali come un mero atto di fede rispetto a ciò che afferma il “creditore” previdenziale, allorquando dovrebbe essere, né più, né meno, che il mero risultato di una operazione matematica.
L’operazione di basilare aritmetica che gli enti previdenziali sono tenuti a dimostrare di fronte al giudice, è la seguente:

 

minimale ex art. 1, D.L. 338/1989 –

contribuzione versata effettivamente

 


= differenza positiva ancora dovuta

Provato ciò – un risultato di valore positivo (+), in effetti il minimo indispensabile per pretendere qualcosa – non vi è dubbio che quell’ente previdenziale creditore avrà pieno diritto a quanto richiede. Nel caso contrario, un creditore che non riesca a spiegare puntualmente i propri calcoli, diritti non potrà validamente vantarne.
Eppure, accade non di rado che, malgrado non vi sia in atti prova certa del “diminuendo” (nel nostro caso il minimale ex art. 1, D.L. n. 338/1989), qualche giudice riesca comunque ad affermare, per esempio, che “appare pacifico che l’azienda non si sia adeguata al minimale contributivo” e che abbia versato “importi inferiori, essendo pertanto tenuta al versamento delle differenze contributive, calcolate con riferimento al minimale”.
Ma se l’indicazione di quel “minimale”, appunto, manca? Se mancano i conteggi, come si fa ad affermare tanto con sicurezza?
Purtroppo non si tratta di casi isolati e molte aziende si vedono rapidamente “rimpallate” da un grado all’altro di giudizio senza essere neppure in grado di fare osservare quanto emerge pianamente per tabulas.
Eppure, alla stessa Cassazione e ai tribunali sono, in fondo, del tutto noti i principi contabili
del corretto calcolo. Poiché, in effetti e come visto, di un banale “calcolo” si tratta.

 

Tribunale Milano, sez. Lavoro, n. 1553/2019
“Il principio sancito dalla Suprema Corte è pertanto quello in virtù del quale la base di calcolo della contribuzione non può comunque essere inferiore alla retribuzione prevista dalle fonti normative e/o convenzionali riferibili al rapporto di lavoro, indipendentemente dal fatto che le parti aderiscano o meno alle associazioni sindacali stipulanti il contratto collettivo, che il contratto sia o meno applicato dall’azienda ai propri dipendenti e che al lavoratore sia dovuta ed effettivamente corrisposta una retribuzione inferiore (Cass. n. 3110/2001, cfr. tra le tante, Cass., sez. Lav., n. 4.56/2002; Cass. sez. Lav. n. 1865/2003, Cass. sez. Lav. n. 16/2012)”
I contenziosi previdenziali sui “minimali” non sono però gli unici che mostrano quanto siano in salita le vie delle difese dei contribuenti.
A prescindere dal fatto che l’onere di prova di norma incombe per legge sugli enti di previdenza (cfr. Cass. n. 9662/2019), pare essersi oramai affermata in modo strisciante un’opinione preconcetta di legittimità dell’azione pubblica e di sostanziale inversione dell’onere probatorio.
Ogni tanto, però, vi è da dire, anche i contribuenti hanno la fortuna di trovare attento uditorio.
Per esempio – “giudice a Berlino” – va segnalata, con la speranza che se ne diffonda l’esempio, l’azione attenta e meticolosa della sezione Lavoro della Corte di Appello di Venezia, che sa indagare con reale interesse le ragioni sostanziali di “creditori” e “debitori”.
di Mauro Parisi

[Sintesi n. 9/2019]