Sono migliaia di professionisti che potrebbero essere a rischio di reato a causa di impiegati “condivisi”. Almeno secondo le tesi dell’Amministrazione. Infatti, per ingegneri, geometri, medici e commercialisti anche avere in comune una segretaria con i colleghi, o una società, può diventare, oggi, una vera e propria “bomba ad orologeria”. Pronta a “scoppiare” con le pesanti sanzioni previste dall’articolo 18 del Decreto legislativo 276 del 2003. Un pericolo reale, insomma, e neppure di poco conto, visto che la circostanza può finire sui tavoli delle Procure della Repubblica. È di questa estate, per esempio, il caso di oltre settanta medici nella Provincia di Vicenza, finiti sotto inchiesta perché accusati di avere “approfittato”, presso i loro ambulatori – in cui operano come associati –, delle attività di infermieri e impiegati non assunti direttamente, ma da cooperative.

Sul territorio, del resto, sono sempre più frequenti gli accertamenti di ispettori e forze di polizia rivolti ad ambulatori e studi in cui operano congiuntamente più professionisti. Sovente si tratta di “consessi” promiscui di lavoratori autonomi, presso cui, cioè, coabitano e trovano spazio competenze diverse consulenti e avvocati, agronomi e architetti) e società più o meno funzionali (es. ced). Il più delle volte, più che per creare centri multi – tasking, ciò che accomuna tutti è un solo, reale obiettivo: risparmiare gli onerosi costi che attualmente comporta fare attività professionale. Si tratta di studi associati di fatto, in definitiva, molto lontano dal glamour delle grandi e rinomate associazioni professionali. Una costellazione di migliaia di piccoli professionisti che oggi faticano a mantenere con la propria attività sé e i dipendenti. Scomparire o condividere, dunque. La soluzione della condivisione di uffici e personale – pure in un paese di inguaribili individualisti qual è il nostro – risulta così, gioco – forza, una strategia da prendere sempre più in considerazione. Un sistema che, all’apparenza, tralasciate le vanità individuali, risulta tutto sommato abbordabile ed accettato. Ma, purtroppo, non innocuo. Almeno a parere degli uffici ispettivi del lavoro. Ma cosa fa scattare il meccanismo temibile che oggi mette a repentaglio l’esistenza e le finanze di molti professionisti? Quasi sempre la situazione – tipo che si realizza nella pratica appare piuttosto semplice e lineare. Un professionista (ma talvolta è può trattarsi di una società, magari di servizi) affitta uno studio – o addirittura, con un non piccolo “sforzo” in più, lo acquista – e decide che è necessario assumere impiegati (di solito piuttosto giovani, per via delle agevolazioni e della possibilità di vedere contrarre ulteriormente i propri costi). Un’ambizione realizzata, certo. Che però, ricavi liquidi alla mano, frequentemente non regge la prova del tempo. Si scopre, insomma, che – come si dice – “non ci si sta dentro”. Inizia, così, un fitto confronto con colleghi e potenziali “coinquilini”, spesso professionisti in via di avviamento e, magari, di (ancora più) scarsa liquidità. Concludere un accordo diventa per tutti appetibile. Pure mantenendo la propria autonomia e i propri clienti, la coabitazione presso uno Studio comune appare un vero affare. Tutti insieme, ognuno con la propria scrivania e stanza, approfittando di utenze e servizi. Tra cui, specialmente (e qui sta l’inghippo) di quelli offerti da impiegati e collaboratori già assunti. Soprattutto alla segreteria nessuno resiste. Non solo quale must per dare autorevolezza alla propria attività, ma anche come ausilio indispensabile (chiamate, fatturazione, fascicolazioni, copie, ecc) che non ci si potrebbe permettere altrimenti. Di solito i professionisti “di minoranza” (ma lo stesso vale per le formule concordate “alla pari”) si accordano per concorrere alle spese dell’affittuario/proprietario dell’ambulatorio o dello studio, mediante il pagamento – avverso regolare fattura da scaricare – di un fisso concordato per i servizi resi nello studio. Peccato, però, che, di solito, i dipendenti siano assunti solamente da un professionista del “gruppo” o dalla società presente. I quali, così, diventano di fatto “fornitori” (illeciti) di manodopera a “utilizzatori” (gli altri professionisti). Una somministrazione non consentita dalla legge: anzi, espressamente punita. Del resto, la partita non cambia se i professionisti “appaltano” la collaborazione (es. un ambulatorio di medici, con infermieri soci di una cooperativi di servizi), ma poi trattano i “collaboratori”, di fatto, come propri dipendenti. In tutti i casi, infatti, lo scopo di ridurre i costi e massimizzare i profitti non tiene conto della restrittiva normativa prevista dalla legge Biagi. Per cui solo i soggetti abilitati (in linea di massima agenzie per il lavoro) possono “affittare” dipendenti e creare situazioni di condivisione delle prestazioni. A tutti gli altri, fornitori e utilizzatori, tale condivisione illecita costerà (a testa, per ogni lavoratore occupato) €50 di contravvenzione penale per ogni giornata di effettivo impiego. Come dire che un anno di lavoro di un impiegato può costare sui €12000. A cui si aggiungono, chiaramente, i rischi di rivendicazioni da parte dello stesso lavoratore, che potrebbe finanche richiedere al giudice l’assunzione d’ufficio.

Allo stato, in attesa di una normativa un po’ più comprensiva e lungimirante, le soluzioni per i professionisti che vogliono lavorare insieme, e con dipendenti, non paiono molte. Si va dall’assunzione da parte di tutti del medesimo dipendente (cosa che frustra le esigenze di risparmio), alla costituzione (dove di può) di un unico ente associativo. Non troppo consigliabile l’assunzione part – time del dipendente, in quanto di solito non solleva dal rischio della promiscuità vietata. L’appalto di servizi, invece, può essere utile solo nel caso di lavoro preordinato (cosa quasi impossibile in uno studio professionale) del lavoratore: ossia, senza ordini da parte di alcun professionista.

di Mauro Parisi

[The World of Il Consulente n. 62 del 20.12.2014]