La Circolare n. 1/2021 dell’INL ribalta l’indirizzo dei controlli ispettivi sul lavoro a chiamata. Negli anni sono moltissime le aziende che, confidando nell’amministrazione, non hanno assunto o hanno subito ingiusti accertamenti.

Una situazione paradigmatica e frequente, che fa meditare su indebiti e ripetizioni.

Anche in materia di lavoro, è noto, visioni e interpretazioni possono cambiare nel tempo. Quest’ultimo sa magari essere galantuomo, quando vuole, ma i danni che procura nel mentre, non li si ripara sempre facilmente. O affatto. Sulla problematica generale dell’incostanza delle prassi amministrative -che senz’altro s’attaglia a un’infinità di casi a tutti noti-, consente oggi un interessante spunto di riflessione la Circolare n. 1/2021 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in materia di lavoro intermittente e del ruolo della contrattazione collettiva.

Mettiamo il caso di una (sfortunata) azienda che qualche anno fa abbia ritenuto di potere assumere alcuni lavoratori a chiamata, senza però, imprudentemente, tenere conto che il Ccnl da lei applicato glielo impediva espressamente.

Per l’amministrazione, sulla base di un’interpretazione restrittiva (come statisticamente è sempre più frequente che accada) della disposizione dell’allora art. 34, D.lgs n. 276/2003 (oggi sostanzialmente riproposto negli artt. 13 e 14, D.lgs n. 81/2015), gli ispettori del lavoro destinati a giudicare di quell’azienda si sarebbero dovuti attenere al puntuale e chiarissimo monito del Ministero del lavoro. Il quale, fermo il ritenuto “divieto” di legge, li avrebbe costretti a disconoscere i rapporti di lavoro a chiamata, con loro conversione in rapporti a tempo pieno e indeterminato.

In tale rigido senso, tra le altre, è risultata indirizzata la Nota del Ministero del Lavoro del 4.10.2016, prot.n. 18194.

INTERMITTENTE VIETATO PER IL MINISTERO DEL LAVORO…

Così la Nota 4.10.2016, prot. n. 18194

Nel caso di specie, in cui dagli accertamenti ispettivi è emersa la circostanza che una società ha stipulato contratti di lavoro intermittente in violazione delle previsioni del contratto collettivo di categoria che aveva espressamente stabilito il divieto dell’utilizzo di tale forma contrattuale per il periodo di riferimento in ragione della mancata individuazione delle ragioni e delle esigenze produttive che ne giustificassero l’applicazione, appare corretto ritenere che le parti sociali, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, possano decidere legittimamente di non far ricorso affatto al lavoro intermittente…

Ne consegue che la violazione delle clausole contrattuali che escludano il ricorso al lavoro intermittente determina, laddove non ricorrano i requisiti soggettivi sopra richiamati, una carenza in ordine alle condizioni legittimanti l’utilizzo di tale forma contrattuale e la conseguente applicazione della sanzione della conversione in rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato, così come chiarito nella circolare n. 20/2012.

Se i funzionari “disconoscono” un rapporto di lavoro a favore di una sua diversa qualificazione giuridica, si sa, non è senza effetti pratici e conseguenze economiche. La prima, chiaramente, quella di correre il rischio di ritrovarsi in azienda, in via permanente, un dipendente di tutt’altra “natura” e onere economico rispetto a quello che si desiderava occupare. Come senza dubbio può accadere nel caso di un lavoratore assunto per contributi “spot” (a chiamata) -che si vorrebbe presente eventualmente e, per esempio, per poche ore al mese-, rispetto a un dipendente full-time a 40 ore fisse settimanali (quello “trasformato” dagli ispettori).

Chiaramente, se ricorresse una reale inottemperanza della legge da parte dell’azienda, imputet sibi.

Tuttavia, oggi è proprio l’Ispettorato Nazionale a confermare che quanto nel tempo è stato preteso e sanzionato con zelo dagli ispettori, a causa dei Ccnl, non era corretto.

Per la nostra azienda, ispezionata in passato, oltre agli effetti civilistici dell’azione pubblica (sulla cui efficacia e automaticità, per intervento dei soli funzionari, qualche perplessità sarebbe opportuno sollevarla), chiaramente ne sarebbero conseguiti riflessi economici ulteriori, sotto forma di sanzioni amministrative (es. per la non corretta comunicazione dell’assunzione; mancato rilascio al lavoratore di una non corretta dichiarazione di assunzione; non corrette registrazioni sul Libro Unico; ecc.) e di recupero del differenziale di maggiore contribuzione che si sarebbe dovuta versare per l’“esatto” impiego full-time ab origine. Un salasso.

La povera azienda, colpita qualche anno fa da cotali contestazioni, magari dopo avere provato ad agitare un poco le proprie ragioni, obtorto collo, si sarà dovuta adeguare, accettando la propria condizione di reproba, viste le “cento gride” che deponevano per il suo torto.

Sennonché, qualche tempo dopo, vocata a considerare un caso consimile, addirittura la Suprema Corte è venuta a osservare come, in fondo, la facoltà dei Ccnl di proibire tout court il lavoro a chiamata, non esiste. Per nulla. Al più sussiste solo il loro potere di disciplinarne le occasioni dell’impiego (cfr. Cassazione, sentenza 13.11.2019, n. 29423. Si veda Sintesi, gennaio 2020, pag. 13).

… E AMMESSO PER LA CASSAZIONE

Così la Cassazione, sentenza n. 29423/2019

“L’art. 34, comma 1, D.lgs. n. 276 del 2003 si limita, infatti, a demandare alla contrattazione collettiva la individuazione delle esigenze per le quali è consentita la stipula di un contratto a prestazioni discontinue, senza riconoscere esplicitamente alle parti sociali alcun potere di interdizione in ordine alla possibilità di utilizzo di tale tipologia contrattuale; né un siffatto potere di veto può ritenersi implicato dal richiamato rinvio alla disciplina collettiva che concerne solo un particolare aspetto di tale nuova figura contrattuale e che nell’ottica del legislatore trova verosimilmente il proprio fondamento nella considerazione che le parti sociali, per la prossimità allo specifico settore oggetto di regolazione, sono quelle maggiormente in grado di individuare le situazioni che giustificano il ricorso a tale particolare tipologia di lavoro”.

A questo punto, con una bella inversione a U, quantunque con inspiegabile ritardo, l’amministrazione indirizza gli ispettori a scorgere e rilevare ben altro, quanto al lavoro a chiamata (“Ne consegue dunque la necessità di conformarsi alla pronuncia della Suprema Corte, nel senso di non tener conto, nell’ambito dell’attività di vigilanza, di eventuali clausole sociali che si limitino a “vietare” il ricorso al lavoro intermittente”).

La povera azienda, in definitiva, se venisse a conoscenza delle nuove “circostanze”, rimarrebbe presumibilmente avvinta da irriferibili pensieri in ordine all’imponderabilità dell’agire nel nostro ordinamento. Comunque sia, avrebbe patito un danno economico ingiusto, accollandosene il peso. Né saprebbe, del resto, a chi rivolgersi per venirne sollevata, dato che l’amministrazione pare fluttuare libera e impune tra le proprie mutevoli determinazioni.

In fondo le interpretazioni -comprese quelle con ricadute operative delle amministrazioni, a quanto pare- sono esercizi mentali e cogitationes. E si sa che cogitationis poenam nemo patitur…

Tuttavia, almeno su qualche ponderata azione per la ripetizione di eventuali indebiti nei confronti dell’enti pubblici, sarebbe opportuno si iniziasse a ragionare con attenzione.

di Mauro Parisi

[Sintesi n. 4 – Aprile 2021]