La sentenza n. 15195/2019 del Tribunale di Milano supera le resistenze dei curatori fallimentari ad attribuire ai lavoratori che si insinuano al passivo anche i contributi Inps.
Non sempre i curatori fallimentari sono disposti ad ammettere al passivo
le richieste dei lavoratori che non si siano visti versare, oltre alla propria retribuzione, anche la contribuzione di competenza esclusiva del datore di lavoro.
Il lavoratore che non abbia ricevuto dal datore di lavoro fallito la propria retribuzione, ha indiscutibile titolo a vedersi attribuito dal fallimento, non solo la retribuzione omessa -articolata nei modi del caso, oltre a Tfr, indennità sostitutive del preavviso, eccetera-, ma pure la quota di contribuzione posta a proprio carico.
Tale diritto può dirsi consolidato, stando anche agli orientamenti recenti della Cassazione (cfr. sentenza n. 23426/2016), a conferma del principio della c.d. integrità della retribuzione.
La contribuzione relativa alla parte -la maggiore- posta a carico del datore di lavoro, invece, come noto, non costituisce competenza del lavoratore, bensì degli Istituti di previdenza titolari della medesima.
Ma che accade se tali Istituti rimangono inerti, non insinuandosi nel fallimento?
Si affaccia molto consistente il rischio che le ragioni del prestatore di lavoro siano compromesse.
O che, quantomeno, risulti molto più complesso il sollievo della posizione creditoria.
Il caso trattato dalla sezione fallimentare del Tribunale di Milano, che ha condotto alla significativa pronuncia n. 15195/2019, concerne proprio la posizione di alcuni lavoratori, ex dipendenti di un’azienda fallita, che richiedevano, tra l’altro, le retribuzioni maturate, indennità di fine rapporto, indennità sostitutiva del preavviso, Tfr e superminimo.
Il Giudice fallimentare procedente ammetteva al passivo le predette somme, tuttavia al netto dei contributi previdenziali.
I lavoratori proponevano, quindi, opposizione allo stato passivo, la quale trovava il giusto accoglimento da parte del Tribunale.
Il Collegio precisava, innanzitutto, che anche il credito retributivo del lavoratore va ammesso al passivo del fallimento del datore di lavoro al lordo dei contributi posti a carico del medesimo prestatore di lavoro.
Del resto, al riguardo la Cassazione (cfr. Sent. n. 23426/2016) ricorda come in caso di mancato pagamento della quota a carico del lavoratore nei termini di legge, gli importi rimangono definitivamente a carico dell’azienda (art. 23, L. n. 218/1952).
Dubbi, invece, emergevano quanto al diritto del lavoratore a insinuarsi anche per la parte di contribuzione posta in capo al datore di lavoro, in quanto il lavoratore è soggetto terzo rispetto al rapporto bilaterale tra datore di lavoro e Istituto previdenziale.
Tuttavia, nella circostanza in cui detto Istituto -nel caso considerato dal Tribunale di Milano, si trattava dell’Inps- non si sia insinuato, il lavoratore può richiedere in via prudenziale, l’ammissione al passivo anche per le somme di contribuzione poste a carico del datore di lavoro.
La sentenza n. 15195/2019 afferma che la mancata attività dell’Istituto di previdenza non giustifica il fatto che il curatore fallimentare possa trattenere le somme corrispondenti alla contribuzione dovuta.
Per cui, sulla scia della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 12964/2010), la sezione fallimentare milanese ribadisce oggi che si deve riconoscere al lavoratore l’intera retribuzione lorda, salvo, chiaramente, la possibilità di rivalsa onde evitare il pagamento duplice dello stesso credito.
Nel caso considerato, peraltro, il Tribunale rilevava che il curatore neppure dimostrava di avere comunicato all’Inps mensilmente la quota di contribuzione dovuta e, tantomeno, che l’Istituto si fosse insinuato nel passivo fallimentare.

Ciò confermava ancora più il diritto del lavoratore a ottenere ogni importo lordo di retribuzione.

Tribunale di Milano,

sez. fallimentare, sentenza n. 15195/2019

Qualora non vi sia stata insinuazione al passivo da parte dell’Inps, il curatore – su cui incombe l’onere di coordinare le richieste avanzate dall’Istituto previdenziale con quelle del lavoratore – non può portare in detrazione le trattenute per contributi previdenziali, ma deve riconoscere al lavoratore la retribuzione lorda, salva la possibilità del successivo esercizio del diritto di rivalsa onde evitare il duplice pagamento del medesimo credito. Ritiene il Tribunale che dalla documentazione in atti non emerge che il datore di lavoro abbia effettuato la predetta comunicazione e ancor meno che l’Inps si sia insinuato nel passivo del fallimento, con la conseguenza che la domanda degli opponenti deve trovare accoglimento.

di Mauro Parisi
[Sintesi n. 10/2019]