Quando la Riforma genera dubbi e li risolve

Sappiano tutti quali e quanti siano i dubbi e le perplessità che ci hanno attanagliato in questo primo periodo di applicazione della Riforma del Lavoro. Tutti condividono che, prima di applicarle, occorrerebbe intenderle le nuove disposizioni di legge. Dato che, tuttavia, il tempo per “meditare” è poco –e che più spesso gli operatori sono chiamati, appunto, a “operare”, senza “ma” e senza “se”-, sono già moltissimi i casi e gli “impacci” pratici in cui sono cascati non pochi tra di noi. Come uscirne?

Non vi è dubbio che un sistema “asistemico” e disposizione “vaganti” (e, non di rado, sottilmente bizantine), determinano gli operatori ad ansiose e spesso frenetiche ricerche per richieste di chiarimento e precisazione. Come risolvere le tanto assillanti incertezze che ci assediano? Il suggerimento più utile e semplice sembra, tutto sommato, questo: non appena i dubbi ci assalgono, anziché alzare la cornetta del telefono alla ricerca convulsa di qualche parola di speranza e conforto, proviamo a veicolare le nostre preziose energie nella lettura della legge 92/2012 e dei suoi spesso complessi (ma non misteriosi, con un po’ di buona volontà) rimandi. Senz’altro appare questo il migliore consiglio che possa essere offerto con riguardo al modo e all’attitudine con cui va affrontata la Riforma del lavoro. Anche (ma, forse, sarebbe da dire, soprattutto) in una tortuosa materia quale è quella del recesso del lavoratore. Per esempio, in questi giorni, tra i moltissimi, è capitato il caso di una azienda che ha licenziato per giustificato motivo oggettivo un lavoratore. A seguito dell’intimazione, il lavoratore ha eseguito la sua prestazione per il periodo di preavviso di venti giorni previsto dalla contrattazione collettiva. Quindi ha terminato di lavorare.

Tutto a posto? L’azienda, avendo venticinque dipendenti, contestualmente all’intimazione del licenziamento, effettua la comunicazione alla locale Direzione Territoriale del Lavoro, indicando la volontà del licenziamento, quali siano i motivi per cui si intende procedere e offrendosi di attivarsi per mettere in contatto il lavoratore con alcune agenzie di somministrazione. A questo punto, la Direzione del lavoro convoca presso di sé lavoratore e datore di lavoro. Di fronte alla Commissione di conciliazione (ma, nota bene, in una veste anche formalmente diversa), il datore di lavoro fa presente di avere dovuto licenziare il lavoratore per una riduzione del fatturato di oltre il 35% negli ultimi due anni e per la necessità di adeguare di conseguenza la dotazione organica dell’azienda. Il funzionario della Direzione del lavoro, quale presidente della Commissione, non può che notare che il novellato articolo 7 della legge 604/1966, stabilisce che il licenziamento deve essere preceduto – e non seguito – dalla comunicazione alla Commissione e al lavoratore. Sempre lo stesso presidente fa notare che è vero che il licenziamento intimato a seguito all’esito della procedura in corso produce comunque effetto dal giorno della comunicazione di avvio della procedura, mentre il periodo lavorato successivamente a tale data vale come preavviso. Però, nel caso di specie, il licenziamento era già stato intimato e “consumato” e il tutto non appariva in regola. Intuendo la malaparata, l’azienda, insistendo sulle sue posizioni, si dice comunque disposta a corrispondere tre mensilità della retribuzione a titolo di speciale remunerazione per i servizi prestati dal lavoratore e, di fatto, quale sostanziale contropartita di una preventiva conciliazione.

Il lavoratore, tuttavia, consigliato di resistere (perso per perso…), rifiuta l’offerta del suo (ex?) datore di lavoro, dichiara che il licenziamento è illegittimo e aggiunge che, comunque, il motivo oggettivo addotto non sussiste perché –afferma- tutti sanno che l’azienda ha fatto di recente importanti acquisti di macchinari. Date le dichiarazioni, la Commissione, non può che prendere atto del mancato raggiungimento dell’accordo e, sulla procedura, cala il sipario. A questo punto l’azienda, inquieta, si rivolge al professionista che l’assiste, per capire bene come stanno le cose. Il professionista – ora inquieto ancora più dell’azienda – si chiede se il lavoratore sia oramai da considerarsi cessato o meno. E, se no, come deve comportarsi il datore di lavoro. Nel rivolgersi a destra e a manca in cerca di una soluzione soddisfacente, il professionista aggiunge (non sa se a favore dell’azienda o contro) che ancora non si è proceduto alla comunicazione di cessazione del lavoratore. Per cui, quid iuris a questo punto? Che si fa? Anche in questo caso, come in altri, per la soluzione non occorre una sfera di cristallo. Basta dare un’occhiata alla legge. Leggendo la disposizione introdotta dal comma 40 dell’articolo 1, legge 92/2012, emerge con chiarezza che in realtà l’azienda non ha operato bene. E questo è un primo punto. Il secondo aspetto è che, il licenziamento, comunque sia, è stato intimato. È tale intimazione senza effetto? No. Risulta “solamente” che il licenziamento è stato intimato in chiaro difetto di una prevista disposizione di procedura. Ed ecco, come d’incanto, scorrendo la legge 92/2012, al comma 42 dell’articolo 1, appare la previsione che, emendando l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, regolamenta tale genere di fattispecie. In particolare, oggi si dispone che in tali casi deve ritenersi “risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento”. Unica “pena” per il datore di lavoro ricorrente, l’attribuzione di una indennità risarcitoria onnicomprensiva, tra sei e dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Quindi, in sostanza, anche nel caso proposto, non vi è alcun motivo di ritenere ancora in forza il lavoratore (il fatto che non vi sia stata ancora la comunicazione di cessazione non conta), salvo il fatto che pende il rischio che quest’ultimo intenda fare dichiarare l’illegittimità del licenziamento a fini risarcitori. Tutto qua.

Purché, sia chiaro, il datore di lavoro abbia detto il vero quanto ai motivi del licenziamento. Se, invece, il motivo addotto era del tutto infondato, il rischio di reitegra è molto consistente. Ce lo dice sempre la legge di Riforma, al medesimo comma 42. Esso ci conferma che se, diversamente, il motivo oggettivo ricorre, ma non nei modi “pieni” descritti, il rischio si concentra su una possibile indennità individuata dal giudice tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Insomma, con un quadro del fatto ricostruito in questi termini, così come emerge con certezza dalla norma di legge, sembra molto più chiaro cosa il professionista (senza ambagi, né tensioni) potrà consigliare per il meglio alla propria azienda cliente.

di Mauro Parisi

[The World of Il Consulente n. 34/2012]