L’insostenibile peso delle dichiarazioni spontanee nei processi.

Attenti a quello che si dice agli ispettori. Non solo per gli ispettori in sé, ma anche per le conseguenze kafkiane che spesso ne traggono i giudici.
Una piccola storia, può illustrare una problematica invero delicata.
Un signore è consocio di una società che gestisce un piccolo locale, il quale subisce un’ispezione. Non essendo stato trovato dagli ispettori presso lo stesso locale all’atto dell’accesso, egli viene convocato in ufficio dai funzionari. In quella sede, il signore –molto tranquillo e sicuro di essere in regola-, parla liberamento con gli ispettori, risponde alle loro domande e, alla fine del colloquio, con naturalezza, sottoscrive il verbale delle proprie dichiarazioni che i funzionari, nel frattempo, hanno redatto per porgerglielo.
Ma -attenzione al punto-, il signore firma l’atto senza rileggerlo.
Qualche mese dopo, al signore viene notificato un verbale ispettivo in cui si vede contestare il fatto di non essere mai stato iscritto alla Gestione commercianti dell’INPS. In particolare, guarda cosa, sulla base delle circostanziate attestazioni che lui stesso avrebbe reso.
Che cosa sembra avere detto il signore?
Che avrebbe sempre lavorato, notte e dì, presso il piccolo locale. Per cui, non poteva non essere iscritto a tale gestione.
Tutto chiaro? Non proprio.
Perché quel signore, oltre che socio, lavora quale guida turistica per una cooperativa locale. Accompagna turisti in gita e il suo impegno è quotidiano e fisso, come attestano le buste paga della stessa cooperativa, di cui risulta dipendente.
In definitiva, il signore sembrerebbe occupato parimenti, sia presso il suo locale, sia come guida turistica. Salvo ipotizzare che non dorma mai la notte, una circostanza almeno inverosimile.
Perciò, certo del fatto suo –e dell’impossibilità delle attestazioni provenienti dall’amministrazione- il signore decide di promuovere una causa, per fare constatare dal giudice –anche con testimoni e documenti- l’inesistenza dei presupposti che l’amministrazione afferma.
Si va giudizio, si propongono le cosiddette richieste istruttorie, e qui…sorpresa.
Il giudice decide di non ammettere neppure le prove testimoniali richieste, poiché già sussisterebbe prova piena dei fatti contestati. E ciò, poiché esistono le dichiarazioni rilasciate a suo tempo agli ispettori dal ricorrente.
Si insiste invano con il dire che le dichiarazioni sono state fraintese e che si vuole offrire in corso di causa prova del contrario.
Il giudice è irremovibile. Quanto trascritto dai pubblici ufficiali farebbe fede fino a querela di falso.
Insomma, il signore si è caccia nei guai con le sue stesse mani e non riesce più ad uscirne.
Eppure, le conseguenze di una condotta, probabilmente leggera e inconsapevole, non possono essere queste.
I processi, altrimenti, anziché i giudici, li farebbero direttamente gli ispettori nel corso del loro controllo. Una situazione di non cristallina garanzia.
Ma la verità è un’altra e, tra le molte, ce la illustra bene la recente sentenza n. 166/2014 della Cassazione. La quale afferma espressamente che “quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni …rese [agli ispettori] dalle parti o da terzi, facendo fede fino a prova contraria, [quest’ultima è] ammissibile qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice ed alle parti l’eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni”.
In definitiva, per quanto compromettenti siano state le dichiarazioni di lavoratori e datori di lavoro, è -e deve essere- comunque sempre ammessa in giudizio la prova contraria (talvolta, invero, difficile) volta a superare il significato e gli effetti di tali prime indicazioni.
Dunque, nessuna piena prova fino a querela di falso.
Per quanto male si sia dichiarato agli ispettori, davanti al giudice una prova di appello va concessa. A chiunque.

di Mauro Parisi

[The World of Il Consulente n. 54 del 20.03.2014]