Niente licenziamento, né trasferimento presso altra sede aziendale in caso di matrimonio del lavoratore. All’unica condizione che il trasferimento sia stato opposto formalmente dal dipendente. Una «immunità» che opera pure se il matrimonio non era neppure noto all’azienda, al tempo del licenziamento. Si tratta dell’indicazione che proviene dalla sentenza n. 306/2018 della Corte d’appello di Bologna.

La Corte bolognese era chiamata a pronunciarsi sul caso di un impiegato presso una sede aziendale emiliana che era stato trasferito ad altra sede per motivi organizzativi dell’azienda. Il dipendente si era però rifiutato di prendervi servizio, dichiarando per iscritto di ritenerlo illegittimo, ma facendo sapere di essere disposto a riprendere il lavoro presso la sede originaria. Ritenendo l’assenza ingiustificata il datore di lavoro, dopo alcuni giorni, procedeva al licenziamento del dipendente. Il quale, a questo punto, adiva il Giudice del lavoro, chiedendo la reintegrazione e argomentando a proprio favore, non solo di avere subito un torto a causa del trasferimento ritenuto abusivo, ma, a sorpresa – in quanto circostanza mai palesata all’azienda – il fatto che il licenziamento fosse stato posto in essere in seguito delle pubblicazioni del proprio matrimonio. E, quindi, che fosse comunque da considerarsi invalido.

L’articolo 35, dlgs n. 198/2006 (cd. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) dispone, non solo la nullità dei «licenziamenti attuati a causa di matrimonio», ma che siano considerati comunque tali quelli posti in essere «nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa».

I giudici superavano agevolmente la circostanza che la predetta previsione nazionale risulta evidentemente destinata alle sole «lavoratrici». Ciò, rifacendosi a una ricostruzione complessiva e prevalente del diritto comunitario, per cui non dovrebbe sussistere «discriminazione fondata sul sesso direttamente o indirettamente» (art. 2, Direttiva 76/207/Ce).

Quindi, senza entrare nel merito del trasferimento, andavano a valutare come nel caso del dipendente «nubendo» che rifiutava formalmente il trasferimento, non si ricadesse nell’ipotesi della speciale «colpa grave», unica ragione per cui, pure in costanza di matrimonio, può sussistere giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro. Le uniche ragioni in cui possono essere licenziati lavoratori sposati, infatti, oltre alla detta «colpa grave», concernono la cessazione dell’attività dell’azienda o l’ultimazione di quella del lavoratore. Negli altri casi, il dipendente va reintegrato comunque.

A parere della Corte bolognese, la circostanza che il lavoratore avesse opposto le proprie formali eccezioni al trasferimento, a prescindere dal merito dei fatti e di sommarie ragioni, escluderebbe obiettivamente la «colpa grave» per il licenziamento, poiché vi erano già state le pubblicazioni delle nozze. Una situazione spesso non nota agli stessi datori di lavoro che, tuttavia, a quanto pare, deve ritenersi incidere in modo imprevedibile e determinante nelle scelte imprenditoriali.

di Mauro Parisi

[ItaliaOggi n. 270 del 15.11.2018]