Sentenza del Consiglio di stato

Mobbing quasi impossibile nel pubblico impiego. Lo dice il Consiglio di stato. Si prospettano tempi duri per avvocati, consulenti e medici del lavoro chiamati ad assistere e difendere i funzionari colpiti da sistematici atti persecutori. Ma, ben s’intende, ancor più duri per chi lavora nel settore pubblico. Infatti, la prova di vessazioni e prevaricazioni diventa, ora, pressoché diabolica. In tale senso si è venuta a pronunciare la suprema giustizia amministrativa negli scorsi giorni (Cons. stato, Sez. III, sentenza 12/1/2015, n. 28), offrendo una visione senz’altro restrittiva della nozione di mobbing e della possibilità di offrirne evidenza. In particolare, il Consiglio di stato afferma che il lavoratore – e chi lo assiste – sarebbero addirittura chiamati a dimostrare l’esistenza di uno specifico disegno criminoso di superiori o colleghi, da verificare, poi, da parte del giudice sulla base dei suoi poteri. Non pare essere pertanto sufficiente indicare l’esistenza di una serie di condotte illegittime nei confronti del dipendente, se non si riesce anche a dimostrare la presenza di elementi concreti in grado di suffragare lo specifico «progetto» lesivo dell’amministrazione, e di chi in essa. Per chi conosce un po’ la vita e le dinamiche delle pubbliche amministrazioni, che si tratti di una prova quasi impossibile – diabolica, come dicono i giuristi – non vi sono dubbi. Tanto più che la sentenza n. 28/2015 si inserisce nel solco di quella, altrettanto temibile, del medesimo Consiglio di stato del novembre scorso (Sez. VI, n. 5419/2014), la quale stabiliva, nella sostanza, che perché si possa parlare di mobbing, tutti gli atti amministrativi posti in essere nel mobbizzare il dipendente devono caratterizzarsi, per lo meno, per sviamento di potere. Cioè, essere stati compiuti in esecuzione di un disegno persecutorio e a prescindere da qualunque concorrente interesse pubblico. Come dire, che se il provvedimento mobbizzante è stato destinato anche – almeno «un po’» – a qualche scopo pubblico, non può esservi persecuzione e danno del lavoratore. Il caso? Per esempio, ciò potrebbe accadere se il pubblico dipendente venisse continuamente trasferito (in modo palesemente persecutorio: per esempio in modo abnorme rispetto ai colleghi), ma venendo comunque a coprire reali esigenze di organico.

Nel caso trattato dal Consiglio di stato con la sentenza n. 28/2015, il pubblico dipendente era stato demansionato. Tuttavia, per i giudici, la cosa di per sé, in assenza di una palese evidenza di un «piano» persecutorio, non potrebbe essere definita mobbing, potendo al più dare origine a richieste da risarcimento da danno professionale. Del resto, già in precedenza lo stesso Consiglio di stato aveva inteso escludere la ricorrenza di condotte mobbizzanti, nel caso in cui la valutazione complessiva delle circostanze riportate non era in grado di provare in modo sufficientemente certo, il carattere reale della discriminazione del lavoratore. Insomma, per il mobbing servono una chiara offensività e pretestuosità degli atti pubblici posti in essere all’unico scopo di danneggiare il dipendente.

Un’interpretazione di mobbing, quella offerta dal Consiglio di stato, che appare senz’altro limitante, come si diceva, e in controtendenza, non solo rispetto a quella, più «disponibile» e aperta, offerta dalla Cassazione con riguardo al lavoro nel settore privato; ma anche a quella dei Tribunali amministrativi regionali. Quanto alla Suprema corte, di recente si è segnalata la sentenza (Cass. n. 898/2014) che al fine del configurarsi del mobbing si «accontenta» di una serie sufficientemente reiterata di condotte offensive, anche lecite – se considerate singolarmente – ma comunque volte a perseguire sistematicamente il lavoratore, con compromissione dell’integrità psico-fisica. Similmente, i Tar (cfr. Tar Calabria, Catanzaro, n. 812/2014 e Tar Abruzzo n. 248/2014) hanno di recente offerto una nozione meno «intransigente» di mobbing e della prova richiesta, ritenendo sufficiente la dimostrazione della concatenazione di fatti e l’esistenza di un danno alla salute.

Contrasti di giurisprudenza che, in ultima analisi, non solo complicano la vita ai professionisti che agiscono in difesa, ma che, soprattutto, non pacificano il comparto pubblico in cui il mobbing risulta endemico e di difficile soluzione. Per i lavoratori mancano le opzioni alternative, non potendo del resto cambiare datore di lavoro. Insomma, in caso di mobbing pubblico, o si sopporta, o si è destinati a perdere il posto.

di Mauro Parisi

[ItaliaOggi n. 22 del 27.01.2015]