Sul problema delle sanzioni civili per ritardi e carenze di versamenti contributivi e premi, finalmente, qualche buona notizia. Viene infatti, oggi, dai giudici lo stop alla mano pesante per quanti hanno omesso di versare contributi previdenziali. Salva la doverosa corresponsione degli stessi agli Istituti competenti, per i magistrati, se non dei casi più gravi, vanno evitate le “misure estreme”. Insomma, tanto per intendersi, non sono sempre dovute le (solite) onerosissime sanzioni a titolo di “evasione”. Quelle che, come di consuetudine e in modo fin troppo “naturale”, vengono applicate dalle sedi dell’INPS. Tanto per fare esempio.

Ciò accade soprattutto a seguito dell’intervento degli ispettori. In tali casi, le sanzioni civili più gravi non mancano quasi mai. Ma può davvero essere che sia invariabilmente così?

A riprova del nuovo favorevole orientamento di salvaguardia delle aziende che si va affermando, di recente si è espressa autorevolmente la Suprema Corte, con la pronuncia del 25 agosto 2015, n. 17119/2015.

Nel decidere di una vicenda in cui erano in gioco, appunto, le più gravi sanzioni civili -quelle per cd. “evasione” contributiva aggravata-, i giudici di legittimità hanno stabilito che quest’ultima (prevista dall’art. 116, comma 8, della legge 23 dicembre 2000 n. 388, con sanzioni civili, in ragione d’anno, pari al 30 per cento, contro quelle “minori” altrimenti dovute, pari al tasso ufficiale di riferimento maggiorato), non deve intendersi verificata allorquando si ha meramente il riscontro (ma nulla più) che il datore di lavoro non ha versato contributi e premi dei lavoratori (“l’evasione contributiva di cui all’art. 116, comma 8, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 presuppone la volontà del datore di lavoro di occultare, con intento fraudolento, i dati che obbligatoriamente deve trasmettere all’INPS al fine di non versare i contributi o i premi dovuti al lavoratore”).

In definitiva, per i giudici, deve emergere qualcosa di più della circostanza che non si sia versato quanto dovuto. Deve, cioè, venire dimostrata la volontà del datore di lavoro di agire con dolo specifico. Ossia, con il desiderio di occultare, con chiaro intento fraudolento, la denuncia di quei dati per cui vi era obbligo di corretta e tempestiva trasmissione.

Una notizia molto rassicurante, tutto sommato. Il primo profilo sottolineato dai giudici della Cassazione, pertanto, è che non ogni omissione e mancata denuncia di contributi e premi porta alle “peggiori” conseguenze punitive previste dall’ordinamento –innanzitutto sotto l’aspetto pecuniario-, con la richiesta

di sanzioni civili e maggiorazioni per la gravissima ipotesi della cd. evasione.

Una verità tutt’altro che scontata, come è noto a tutti, nella prassi quotidiana degli Istituti che tendono sempre a “pensare male” (delle aziende) e sanzionare peggio.

Ma vi è di più. Dalla predetta pronuncia agostana discende il “precetto” per cui l’INPS e INAIL sono tenuti a provare espressamente l’intento fraudolento del contribuente, non potendolo meramente presumere per tabulas. Ossia, come di solito accade, sulla base delle sole carte dell’azienda (anzi, il fatto che “bastino” le carte a provare, parrebbe indice del contrario). È così, infatti, che avviene usualmente, quando entrano in campo gli ispettori.

La posizione più rigorosa e garantistica assunta dalla Cassazione, pare oggi suonare quale monito ai funzionari affinché operino rilievi mirati e non presunti. Va appena osservato che l’attento richiamo della S.C., non solo corrisponde alla lettera della legge (cfr art. 116, c. 8, lett. B, L. 388/2000: “in caso di evasione connessa a registrazioni o denunce obbligatorie omesse o non conformi al vero, cioè nel caso in cui il datore di lavoro, con l’intenzione specifica di non versare i contributi o premi, occulta rapporti di lavoro in essere ovvero le retribuzioni erogate”), ma, in realtà, riproduce le medesime indicazioni già da tempo fornite dalle sedi centrali degli Istituti previdenziali (cfr, per esempio, Circ. INPS 110/2001) agli Uffici periferici e ai loro funzionari.

Nella stessa linea di attenzione a non aggravare la posizione del trasgressore, si segnalano pure recenti prese di posizione dei giudici di merito. Come quella della Corte di Appello di Lecce del 13 maggio 2015, che -con riguardo ai riflessi penali per i datori di lavoro nei casi in cui abbiano omesso di versare le ritenute previdenziali dovute all’INPS- ha stabilito che i titolari dell’azienda non possono venire puniti penalmente ove non sussistano le ragioni ostative indicate nell’art. 131 bis, comma 2, c.p..

Ciò significa, nella sostanza, che vanno archiviati tutti quei casi -e sono la più parte- in cui può dirsi ricorrere la speciale tenuità del fatto. Si tratta, come è evidente, del riflesso, in riferimento a reati in materia previdenziale, della nuova ipotesi di non punibilità introdotta dal D.lgs. 28/2015. Nel settore in discorso, la previsione parrebbe condurre al sostanziale effetto di una depenalizzazione della disciplina, atteso che sono indubbiamente la stragrande maggioranza dei casi quelli in cui si potranno riscontrare la non abitualità dei fatti e, senz’altro, il non avere agito –come impone la legge- per motivi abietti o futili, o con crudeltà.

Ancora. Un bell’ausilio a mitigare il rigore di istituti e funzionari adusi a scorgere sempre “evasione”, pure dove sarebbe meglio ritenere, al più, l’“omissione” (con conseguenze pecuniarie notevoli, va detto), viene ora dalla S.C. e dalla sentenza n. 1476/2015. Quest’ultima “salva” quel datore di lavoro che abbia spontaneamente denunciato –quantunque malamente- il rapporto di lavoro. Nel caso, l’INPS avevano applicato le sanzioni civili per evasione alla situazione del lavoratore denunciato come autonomo, anziché come dipendente.

Per la Cassazione, tuttavia, nel caso, non di “evasione” si tratta, bensì di semplice “omissione”. Ma la verità è che non può che essere così in tutte quelle ipotesi in cui non si riesca a provare l’“intenzione specifica di non versare i contributi o premi”.

In fondo, per tutti –amministrazione compresa- basterebbe solo attenersi un po’ di più a quanto davvero scritto nelle leggi.

di Mauro Parisi

[Sintesi n. 11 – Novembre 2015]