Durante l’ispezione il professionista non deve rivelare fatti e produrre atti dei propri assistiti, se non previsto per legge.

Già in passato si è affrontato il tema del rapporto tra i professionisti che seguono l’azienda e gli ispettori, nel corso del loro controllo. In particolare, sulla prassi diffusa di svolgere gli accertamenti presso gli studi professionali piuttosto che in azienda e sugli oneri reali derivanti (vedi “Ispettori presso gli studi professionali.Prassi e doveri”, in V@L n. 1/2017, pag. 33).

Il problema di cosa in effetti deve fare –o può non fare- il professionista per l’azienda e nei confronti di chi accerta, è oggi diventata questione di fondamentale rilevanza. Tanto che non possono non essere considerati tutti gli aspetti che ne discendono, come quello relativo al segreto professionale.

Tanto più che oggi –visto il moltiplicarsi di adempimenti difficili da realizzare- la figura di chi assiste il datore di lavoro è diventata oramai di insostituibile centralità nella gestione delle vicende lavorative, soprattutto di realtà piccole e medie. In definitiva, di quei datori di lavoro che non possono permettersi un ufficio del personale strutturato.

Va osservato che la posizione dei professionisti che seguono l’azienda non appare sempre semplice, dovendosi muovere tra i doveri di mandato, che sorgono dall’incarico professionale, e il rispetto di puntuali adempimenti di legge, verso l’autorità pubblica.

Nel rapporto con l’amministrazione, sussistono come noto, doveri di tenuta e consegna di documentazione obbligatoria dell’azienda. Ma quanto al rispetto della deontologia, ricorre senz’altro l’obbligo di segreto professionale con riguardo alla posizione e alle vicende dei propri assistiti.

Il tema è tornato alla ribalta di recente, grazie a una pronuncia della Suprema Corte (Cass., Sez. penale, n. 46588/2017) sul segreto professionale dei commercialisti e revisori contabili. Tra i motivi che conducevano i ricorrenti ad adire l’ultimo grado di giudizio vi era quello attinente alla prospettata “inutilizzabilità delle dichiarazioni del commercialista della società in conseguenza della possibilità per costui di avvalersi del segreto professionale e del fatto che a costui non [erano] stati fatti gli avvisi previsti per i prossimi congiunti dell’imputato”.

In sostanza, tra l’altro, ci si lamentava che il cliente di un commercialista avesse subito effetti compromettenti dalle dichiarazioni di chi lo assisteva, il quale poteva, tuttavia, fare valere il silenzio del suo segreto professionale.

La soluzione offerta dalla Cassazione –qui relativa a commercialisti e revisori contabili, ma potenzialmente interessante anche consulenti del lavoro, avvocati, e ogni altro professionista-, pare riassumere alcune indicazioni e “linee guida” dell’assistenza ai clienti che possono trovare spazio anche nel corso di accertamenti ispettivi in materia di lavoro.

Nel corso di ispezioni del lavoro non è infrequente che vengano sentiti a sommarie informazioni dai funzionari anche i professionisti che assistono l’azienda. È chiaro che l’intervento del professionista può costituire un utile contributo ad adiuvandum, ove sia in grado di introdurre validi argomenti difensivi.

Tuttavia, non a tutti i professionisti risulta sempre chiaro che non sono tenuti a rispondere agli ispettori, ufficiali di polizia giudiziaria, in ordine a tutti i fatti e le circostanze che concernono la loro assistita. Con notizie –come espone anche la Cassazione- che potrebbero comunque essere utilizzate contro la medesima assistita.

In particolare, non è necessario –e, anzi, non farlo costituisce un dovere deontologico e legale nei riguardi del cliente- riferire o produrre documentazione su circostanze “segrete” e confidenziali. Tali sono soprattutto le circostanze relative a notizie ulteriori rispetto a quanto emerge dalla documentazione su adempimenti obbligatori.

In ambito penalistico, come noto, è stabilito che “non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria” (art. 200 c.p.p.).

 

Tra i soggetti che possono non deporre in giudizio (come fornire altrimenti informazioni) su fatti conosciuti per lavoro o ministero, sono annoverati, tra gli altri, “gli avvocati…, i consulenti tecnici e i notai”, ma pure “gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale”.

Per quanto concerne l’attività di assistenza all’azienda in materia di lavoro, la legge 12 del 1979 stabilisce che “tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti, quando non sono curati dal datore di lavoro, direttamente od a mezzo di propri dipendenti, non possono essere assunti se non da coloro che siano iscritti nell’albo dei consulenti del lavoro…, nonché da coloro che siano iscritti negli albi degli avvocati…, dei dottori commercialisti”.

I predetti professionisti sono titolari di specifici diritti/doveri di astensione su fatti a loro noti circa i clienti, previsti dalla legge e confermati dai codici deontologici dei rispettivi Ordini.

In definitiva, non divulgare notizie e informazioni circa i propri assistiti, anche nel corso dell’ispezione del lavoro, non è solo una facoltà; ma uno specifico dovere dal cui mancato rispetto possono conseguire effetti, sia di carattere disciplinare, sia di carattere economico. Per esempio, nei casi in cui l’azienda scopra che grazie alle “parole” del suo professionista sono stati assunti provvedimenti altrimenti non assumibili dagli ispettori. In tale caso, il rischio potrebbe essere quello di una segnalazione all’ordine professionale e la richiesta di danni economici per inottemperanza al mandato professionale.

E quanto agli ispettori? Come può evincersi dalla pronuncia della Cassazione, dalle dichiarazioni in violazione del segreto professionale non sorge alcun problema.

Ove il professionista abbia deciso di non opporre il segreto e di rispondere agli ispettori, le sue dichiarazioni saranno senz’altro acquisibili e documentali. Oltre che utilizzabili in ogni sede per fondare i provvedimenti ispettivi.

Nel caso in cui decida di astenersi, invece, la sua “astensione” avrà quale unico limite quello della consegna dei “documenti dei datori di lavoro … tenuti presso lo studio”, per la cui mancata esibizione “entro 15 giorni alla richiesta degli organi di vigilanza…sono puniti con la sanzione pecuniaria amministrativa da 100 a 1000 euro” (art. 15, L. 12/1979).

Va del resto utilmente evidenziato che l’obbligo dell’ispettore di rendere noto al datore di lavoro che può farsi assistere da un professionista (cfr. codice di deontologia del personale ispettivo, art. 8, D.M. 15.1.2014), è cosa assolutamente differente dal comunicare al professionista

che può astenersi sul segreto professionale. La prima informativa degli ispettori è dovuta; la seconda, no.

Peraltro, oltre a non potere – evidentemente, pena sanzioni – impedire l’azione dei funzionari, i professionisti, ove diano informazioni in rappresentanza –quantunque professionale- del datore di lavoro non possono fornire “scientemente dati errati o incompleti, che comportino evasione contributiva” (art. 3, comma 3, D.L. 463/1983, convertito).

Da quanto evidenziato può trarsi un breve decalogo sul rapporto effettivo tra ispezione del lavoro e segreto professionale e le possibili conseguenze per gli attori in campo.

 

di Mauro Parisi

[V@L – Verifiche e Lavoro n. 3/2018]