La Cassazione conferma che le società non hanno parenti e congiunti. Non si tratta di una battuta, ma di ciò che effettivamente è stata costretta a ribadire la sentenza n. 7336/2017, in materia di contribuzione Inps per i coadiutori familiari impegnati nelle attività commerciali.

Il fatto che si sia dovuti arrivare davanti a giudici della Suprema corte per affermare una verità lapalissiana, conferma che la strana querelle «familiare» risulta tutt’altro che casuale o desueta rispetto alla prassi amministrativa.

Il caso che ha costretto all’incontrovertibile pronuncia, è stato quello concernente l’attività svolta da un «coadiutore familiare» presso una società in accomandita semplice che operava, appunto, nel settore del commercio. L’Inps, a seguito di accertamento ispettivo che rinveniva l’omissione di contribuzione all’apposita gestione, formava verbale e lo notificava alla Sas di famiglia. Sorto un contenzioso con l’Istituto, sia il Tribunale, sia la Corte di appello confermavano la validità dell’accertamento e l’esigibilità dalla Sas della contribuzione omessa. Senza rilevare, tuttavia, che il verbale notificato alla sola società non era idoneo a interrompere la prescrizione nei confronti dell’unico reale debitore previsto dalla legge. Vale a dire, nel caso, il socio accomandatario, parente del coadiutore.

In effetti, nel ricordare che si può essere familiare coadiutore di uno o più soci, però sicuramente non di una società, la Cassazione viene a richiamare correttamente l’articolo 10 della legge 22/7/1963, n. 613, sull’estensione dell’assicurazione obbligatoria agli esercenti attività commerciali e ai loro familiari coadiutori. Detta disposizione espressamente stabilisce che «il titolare dell’impresa commerciale è tenuto al pagamento dei contributi anche per i familiari coadiutori assicurati».

Nel caso, insomma, non era la società a dovere la contribuzione, bensì il parente-socio. Eppure, contro quest’ultimo, convinti della sufficiente della contestazione alla Sas, mai nulla era stato notificato.

L’impasse in cui è incorso l’Istituto, per cui, oltre ai destinatari delle notifiche, si sono sostanzialmente confusi i reali titolari di relazioni e obblighi, non risulta, nella pratica quotidiana, infrequente. Spesso gli ispettori, traendone evidenti conseguenze in termini di contribuzione, estendono lo stesso concetto di «capofamiglia» al soggetto imprenditoriale in forma societaria. Una visione che cozza, tuttavia, con la medesima definizione codicistica dell’impresa familiare (il noto art. 230-bis, cod.civ.), consorzio di fatto a cui partecipano coniugi, figli, nipoti, generi e nuore. Si suppone, come pare il legislatore e pure la Cassazione, di uno o più dei titolari, che siano persone fisiche.

Un «rigorismo» inverso singolare, quello spesso messo in campo dagli ispettori, che, spesso, giunge addirittura a ritenere preclusi rapporti di lavoro subordinato da parte dei familiari con il parente titolare dell’impresa (con relativi disconoscimenti di rapporti e di versamenti contributivi). Poco conta che sia la legge a indicare la residualità del rapporto di «collaborazione familiare» («salvo che sia configurabile un diverso rapporto»).

di Mauro Parisi

[ItaliaOggi n. 262 del 07.11.2017]