L’Inps ci ripensa.

Si apre uno spiraglio per i pensionati-soci amministratori iscritti a viva forza dall’Inps nella gestione commercianti. Grazie a un parziale ripensamento dell’Istituto, ma, soprattutto, all’intervento garantista dei giudici.

Al riguardo l’Inps è sempre parso finora inflessibile, per cui, anche presso le sue sedi territoriali, è risultato impossibile un confronto franco e diretto sulle ragioni per cui, sovente, l’iscrizione dei nonni titolari di quote societarie non vi poteva proprio stare. Così, in questi mesi è stato necessario rivolgersi al giudice anche per anziani amministratori affetti da gravi malattie (non in grado di badare a se stessi, figurarsi lavorare) o per ultraottantenni che preferiscono passare i loro ultimi giorni presso lidi esteri, lontano dalle sedi delle loro società. Eppure, per essi, neppure può dirsi sussistere lavoro. Tantomeno quello «abituale e prevalente» richiesto quale presupposto legale per l’iscrizione alla Gestione commercianti (art. 1, comma 203, lettera c), legge 662/1996).

Così, per ammettere quanto è a tutti (tranne all’Inps) evidente, non solo è cominciata a fiorire da nord a sud una corposa giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Belluno n. 115/2013; Trib. Catania n. 3507/2012. Come pure di legittimità: cfr. Cass., sez. lav, 11804/2012), la quale è venuta riconoscere che, ai fini dell’iscrizione all’Inps, è necessaria la prova specifica dell’effettiva partecipazione, continuativa e non occasionale, al lavoro aziendale. Ma è lo stesso Inps che ora raccomanda prudenza ai propri direttori e ispettori (circ. 78/2013), rammentando a tutti che «la prova circa la partecipazione al lavoro in azienda con i caratteri della personalità e dell’abitualità spetta all’Istituto di previdenza». Insomma, basta ai riscontri «meramente documentali» e via libera ad accertamenti effettivi sulle persone e situazioni.

La situazione tipo che fa precipitare nel labirinto kafkiano della disavventura amministrativa gli amministratori sulla via del tramonto (ma non solo loro, in realtà), conosce, pressoché invariabilmente, la medesima concatenazione di presupposti e vicende. Lui (o lei) ha lavorato una vita, come imprenditore o professionista. Avendo la fortuna di possedere uno o più immobili da locare, segue il consiglio del commercialista e crea una società (immobiliare) a cui intestare tali beni. Le quote della società vengono, quindi, sottoscritte dall’ormai pensionato, da solo o in compagnia di qualche parente o amico. Contemporaneamente, secondo il «piano», il pensionato viene «battezzato» amministratore e rappresentante legale della sua stessa società. A questo punto, non resta che trovare a chi affittare gli immobili e il gioco è fatto. Senza nessuna difficoltà e attività di sorta, se non quella di verificare il proprio estratto conto bancario, l’anziano amministratore si può godere i canoni (talvolta tutt’altro che indifferenti) che periodicamente gli vengono corrisposti dal locatario. Di ogni adempimento ulteriore, specie di natura fiscale, si occupa il commercialista mentore.

Ma è proprio a questo punto, sul più bello, che il diavolo ci mette lo zampino. Al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi, il fisco prevede di barrare o meno, con una semplice crocetta, un certo campo, quello in cui si richiede di dichiarare se quella di amministratore sia l’attività prevalente svolta da chi vi è incaricato. Il commercialista, a fronte di nessuna attività ulteriore del pensionato, che se la spassa tutto il giorno altrimenti, non ha dubbi: l’attività di amministratore è comunque «qualcosa” di più di nulla (ossia, spassarsela notte e dì). Per cui certamente «prevale». Fa apporre una bella crocetta sulla dichiarazione dei redditi_ e la frittata è fatta.

A questo punto, l’Inps, forte della «prova» documentale offerta dalla dichiarazione dei redditi e di una bella visura camerale, ritiene di non potere fare che 1+1: è chiaro che il pensionato lavora personalmente e abitualmente per la società. Dunque, scatta inesorabile l’iscrizione e l’obbligo di versamento alla Gestione degli esercenti delle attività commerciali ai sensi del comma 202 e successivi dell’art. 1 della legge 662/1996.

Ogni pure immediata difesa e protesta alle sedi territoriali dell’Inps risulta vana. Scritti e richieste di audizione non sortiscono effetti. Ai ricorsi in via telematica ai sensi della legge 88/1989, l’Inps solitamente neppure risponde. E così ci si avvia inesorabilmente verso gli avvisi di addebito che, infatti, non tardano ad arrivare.

Non vi è alcun modo di fare comprendere che, come afferma la Cassazione (cfr. Ss.uu. n. 15063/2002), l’indicazione contenuta nella dichiarazione dei redditi non possiede di per sé, né formalmente, né sostanzialmente, alcun significato «confessorio», ma si tratta di una mera esternazione di scienza sempre emendabile (cfr. Cass. 21944/2007). Soprattutto se, come nel caso, è inesatta.

Insomma, se per i pensionati, e quanti amministratori si sono trovati invischiati in simili vicende, è ancora oggi necessario ricorrere al giudice per vedere accolte pure palesi ragioni, la buona notizia è che, finalmente, la ruota ha iniziato a girare a loro favore.

di Mauro Parisi

[ItaliaOggi n. 29 del 04.02.2014]